Covid 19 e l’invasione di plastica monouso

La pandemia Covid-19 ha gravi conseguenze sul piano sanitario e su quello socio economico, ma c’è un terzo aspetto sul quale incide, spesso ignorato o comunque sottovalutato: quello ambientale. A molti di noi sarà capitato di imbattersi in guanti o mascherine monouso gettate a terra da qualche incivile, ma difficilmente riusciamo a renderci conto della portata planetaria di questa invasione di materiale sanitario che aumenta in modo esponenziale la quantità di rifiuti prodotti.

Fra i pochi settori che hanno tratto guadagno dalla crisi pandemica, oltre a quello del commercio on line e ovviamente al comparto farmaceutico, troviamo anche l’industria della plastica, impegnata a produrre milioni di DPI, i Dispositivi di Protezione Individuale indispensabili per tutelare la salute di tutti e in particolare quella degli operatori sanitari. Guanti, mascherine, visiere molto spesso usa-e-getta, con un ciclo di vita utile brevissimo, a volte poche ore, prima di diventare rifiuto non riciclabile.

Se non vengono smaltite correttamente, queste scorie finiscono, attraverso i fiumi, per arrivare al mare: ogni anno oltre otto milioni di tonnellate di plastica compiono questo percorso verso gli oceani. Poi ci pensano le correnti a portare questa spazzatura su spiagge un tempo incontaminate, oppure a sminuzzarla in particelle sempre più minuscole, fino alle famigerate microplastiche, così piccole da entrare nella catena alimentare attraverso i microorganismi che formano il plancton e risalirla fino a giungere nel nostro piatto.

Ma le microplastiche arrivano a noi anche attraverso la catena alimentare terricola, dall’acqua che beviamo e perfino dall’aria che respiriamo. Secondo uno studio commissionato nel 2019 dal WWF e condotto dall’Università australiana di Newcastle, una persona ingerisce in media 5 grammi di plastica a settimana, equivalenti a oltre 250 grammi all’anno.

In effetti, anche se si parla molto di riciclo, la maggior parte della plastica è appunto usa-e-getta, dunque dopo il primo e unico utilizzo finisce in discarica o all’inceneritore, quando va bene, altrimenti in mare, come si diceva prima. Solo una minima parte viene correttamente differenziata e riutilizzata come materia di recupero.

L’unica soluzione all’invasione della plastica sarebbe dunque quella di ridurne produzione e consumo, ma come si diceva all’inizio l’emergenza da Coronavirus ci sta spingendo in direzione opposta e rischia di aggravare il problema. L’utilizzo della plastica è aumentato anche nel comparto alimentare della grande distribuzione, dove gli imballaggi sono cresciuti anziché ridursi, senza contare l’impatto del settore della consegna del cibo a domicilio, che moltiplica la necessità di confezioni ad uso alimentare non riutilizzabili, il ritorno di piatti e posate di plastica e così via.

Tra l’altro, questa crescita esponenziale dell’utilizzo della plastica, oltre a rappresentare un serio problema ecologico per il prossimo futuro, è anche un controsenso dal punto di vista sanitario. Una ricerca pubblicata lo scorso 2 aprile, in pieno picco epidemico, dalla prestigiosa rivista medico-scientifica The Lancet evidenzia che il virus Sars- Cov-2 ha una sopravvivenza più durevole proprio sopra le superfici plastiche, dove è in grado di rimanere attivo più a lungo che su altri materiali. I ricercatori affermano che a temperatura ambiente il virus può resistere sulla plastica anche una settimana, mentre sulla carta perde la carica virale nel giro di ventiquattro ore, un paio di giorni sui tessuti. Motivo in più per abbandonare questo materiale, invece si continua ad andare in direzione opposta. L’Italia, per esempio, con la promulgazione del Dl Rilancio ha rinviato la tassa che avrebbe dovuto gravare sulla produzione di plastica al gennaio 2021. Inoltre, anche il riciclaggio potrebbe subire un rallentamento, dal momento che, complice il basso prezzo del petrolio, la produzione di nuova plastica rischia di essere più conveniente del mercato del recupero. Se non si interviene decisamente, l’emergenza plastica rischia dunque di sommarsi a quella sanitaria e a quella socio economica.                                              

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