150° unità d’Italia: senza memoria, niente identità e niente futuro

Si susseguono nell’Italia del centocinquantesimo compleanno le operazioni sulla memoria della Nazione, che assecondano in qualche modo le osservazioni di Paul Ricoeur. Senza memoria, niente identità e niente futuro. La metafora è quella atletica del saltatore in alto che si concentra e prende la rincorsa per superare l’asticella, sempre troppo alta. Marc Augé – l’inventore dell’icona dei Non- luoghi – osserva di suo che oggi il globale è interno (e sovente inconsapevole) e il locale esterno. Per questo bisogna tornare a studiare le storie, anche quelle di un borgo di quattromila anime come Cucciago nel Canturino, a venti miglia da Milano e a quattro da Como. Una storia dai molti piani, intersecati: a partire da quello della diocesi ambrosiana dove la Chiesa distende la sua azione da sempre nello spazio pubblico. Una tradizione incominciata da Sant’Ambrogio, capace di opporsi pubblicamente a Teodosio imperatore e in grado di far occupare contro gli eretici le chiese di Milano, intrattenendo il popolo cristiano nelle lunghe veglie con i famosi Inni da lui stesso appositamente composti e fatti cantare. Sic luceat lux vestra, dice Sant’Arialdo, il martire di Cucciago fatto fare a pezzi dal livore del clero uxorato e pure concubinario, che il casto Arialdo combatteva strenuamente in accordo con la Pataria e gli nomine novi ben intenzionati. Dal momento che tanta erat dissolutio tra quei preti, i quali divitias cumulant contra legem paupertatis, ed altro ancora di non commendevole. Modernizziamo: preti bunga bunga. L’antidoto? La Parola di Dio e l’esempio di vita dei Maestri: il rapporto tra Traditio e modernità si illustra da sé medesimo. Del resto e Joseph Ratzinger diceva nella Via Crucis del 2005: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”. Affermazione ripresa ai funerali di Giovanni Paolo II.

Insomma, un filo rosso – questo dell’intervento nello spazio pubblico – che attraversa la Chiesa di Ambrogio e di Carlo Borromeo, passando per Montini, Martini e approdando a Tettamanzi. Restano due temi fondanti che la densa storia di un piccolo borgo ci assegna: la frontiera e il dialetto. Le frontiere non devono essere eliminate – suggerisce ancora Marc Augé – ma attraversate, restare transitabili e porose: vale per tunisini, marocchini ed egiziani come pure per i cinquantamila frontalieri che dal Varesotto e dal Comasco si recano ogni giorno nella neutrale Svizzera per ragioni di lavoro. Stupida follia quella dei leghisti ticinesi (per i quali anche comaschi e varesotti risultano geograficamente “terroni”) che vorrebbero tirar su un muro a Chiasso, dopo quello di Berlino e quello di Cipro. Quando il virus delle secessioni viaggia e galoppa, difficile salvarsi anche per i danesi rispetto ai quali il muro potrebbe essere evocato dagli svedesi, a loro volta recintabili dai norvegesi. Forse alla fine si salverebbero, ma non è detto, i lapponi e le loro renne… Elemento altresì legato al genius loci è indubbiamente il dialetto, sottoposto dal genio leghista nostrano a un trattamento chirurgico che vede mutilati i nomi dei ridenti paesotti di Brianza dell’ultima lettera sul cartello indicatore: Cucciago diventa “Cucciag”, come Bulciago diventa “Bulciag”. Isteria da castrazione. E invece l’uso del dialetto – che come ogni lingua è coscienza – può risultare arricchente della lingua nazionale comune, come ha dimostrato Carlo Emilio Gadda prima con il milanese e lussureggiante dell’Adalgisa e poi con il romanesco di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Ma il dialetto è addirittura storicamente di sua natura inclusivo. Chi passeggiando per il suq di Gerusalemme o Damasco in affollata gita magari aziendale non è stato tentato di comperare – contrattando a lungo vista l’assenza canonica del cartellino col prezzo fisso – una confezione di aromi mediorientali? E dopo vari tentativi in inglese, francese, magari tedesco per dialogare e intendersi, si è visto consegnare la preziosa bustina dal venditore che ne annunciava il nome in arabo: “safràn”! La stessa fonia dell’italiano zafferano già recepita nei secoli dal dialetto meneghino del Porta e del Tessa.

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