CANDIDI COME SERPENTIUn radicato bisogno di centro

Due righe disperatamente ricostruttive, perché “eppur bisogna andar”. C’è infatti un radicato bisogno di centro nelle corde dei riformisti studiati da Enrico Morando, riformisti detti anche Destra Comunista. Giorgio Napolitano, primo di tutti Giorgio Amendola, poi Gerardo Chiaromonte, Bufalini, Macaluso, Ranieri, Morando medesimo. Un bisogno di centro che si svolge dentro il “sistema triadico” (destra, centro, sinistra) e dove tutti loro – i riformisti – sono inevitabilmente homines togliattiani (Macaluso), tutti alle prese con l’incredibile ma reale “originalità del Pci”. Originalità che lo rende affine e concorrente alle socialdemocrazie europee e perfino al socialismo deviato edonisticamente da Craxi (circostanza mai perdonatagli da Enrico Berlinguer) e comunque – questo indubbiamente unico e originale Pci – sempre altro (e cosciente, anche dei miglioristi, di esserlo), altra cosa rispetto ai simili. In questa prospettiva l’Occhetto della Bolognina non può che apparire consapevolmente confuso quando accelera i tempi della macchina (può una macchina da guerra risultare “allegra”?) per non consegnarla sotto le macerie del muro di Berlino all’egemonia craxiana.

 

Nell’altro partner del PD il centrismo c’era e trionfante, ma disorientato e disperso sotto le mura di Tangentopoli, che incomincia alla Baggina di Milano con il socialista Chiesa (mai cognome più fuorviante) e finisce, sempre a Milano, nel Palazzo di Giustizia con l’interrogatorio di Arnaldo Forlani: una gogna forse involontaria. Il giudizio, incominciato nelle piazze, finirà nelle aule dei tribunali. Così si seppellisce una classe politica, o forse essa seppellisce se stessa giunta esausta e stremata all’appuntamento, e se ne impedisce il ritorno. Unica consolazione concessa raccontare agli amici sul sagrato domenicale della parrocchia che “io comunque morirò democristiano”. A vivere invece provvedono i nuovi partiti, costretti dai residui della vis politica a farlo comunque e a prescindere. Il teatro dell’invettiva contro i Comunisti da parte di chi se ne attornia volentieri è propaganda vincente, anche perché meno dimessa e funebre di quella di coloro che da democristiani intendono morire. Vince chi lotta, con tutti i mezzi, artifici, mantra: perché la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. E alla politica il solo fondamento e la colla degli interessi non è sufficiente. Ora, il partner degli ex comunisti (tutti i passaggi di sigle ne hanno comunque illanguidito natura e tempra: gli anni passano per tutti, anche nei grandi cimiteri sotto la luna) sono gli epigoni di parte della Sinistra Democristiana, che ha passato la vita – non grama – a lottare con il suo centro interno. Ecco rispuntare la maledizione delle “parallele” morotee.

 

Al Bar del Nord dicono gli avversari che sono finiti nello stesso letto due partner che si danno un gran da fare sotto le coperte ma il sospetto della impotentia coeundi (Sacra Rota) incombe. In politica i genitori e i suoceri – diversamente che nella vita – si scelgono e si adattano. I già comunisti hanno ricostruito nell’immaginario anche qui un “sistema triadico” che presiederebbe alla storia democristiana: da De Gasperi si passa per Zaccagnini (vulgo, Zac) e si approda tragicamente ad Aldo Moro. Piccoli, Rumor, Bisaglia, Gaspari d’Abruzzo, Gava e i Siculi sono stati cassati insieme alla Bonomiana. Senza quella “pancia” distesa freneticamente sul tutto il territorio nazionale la Sinistra Democristiana non avrebbe potuto esercitare la sua illuminate e sagace quasi-egemonia. Già, perché l’egemonia, inventata da Gramsci, è sempre stata esercitata nel Belpaese dal cattolicesimo democratico, perché la storia – come la Bibbia – non riconosce primogeniture invariabili.

La sete di centrismo non poteva quindi non incontrare difficoltà, sorprese, delusione: i Danai portavano altri doni. Per loro i comunisti erano Togliatti, e non avevano perso troppo tempo con Amendola, Chiaramonte e Bufalini. Così il PD nasce (come nasce) da un comportamento e da uno spaesamento. Il comportamento collettivo sono le primarie. Un parto sicuramente anomalo rispetto alla tradizione dei partiti di massa, che prevedeva: il Libro (Manifesto marxiano del 1848, l’Appello sturziano ai Liberi e Forti), il nucleo d’acciaio della dirigenza e – quasi emanazione plotiniana- le legioni dei Militanti. Qui invece si fanno lunghe code al seggio all’americana per procurare una nascita “dal basso”, in giusta attesa dei Sacri Testi (Carta d’intenti, Carta dei valori, Statuto Etico e quant’altro) che seguiranno come immancabili salmerie. Avremo anche con il kennedismo di Walter Veltroni il Discorso del Lingotto (eco minore di quello di Bob alla Kansas University). Ma gli autori delle indispensabili sudate carte e pandette non ottengono in tempi ottusamente televisivi la necessaria attenzione e audience, e i maligni (non possono mancare in un partito di massa e popolare) fanno circolare la voce che carte e pandette, pur pregevoli, abbiano finito per dimenticarle pure loro… Tutto ciò concorre a produrre quello che Massimo D’Alema ha puntualmente definito – una volta tanto usando la culinaria al posto della nautica – un “amalgama malriuscito”. Ma intanto il PD esiste e consiste, c’è, è vivo e vive in mezzo a noi, e litigiosamente cammina nelle cose sgangherate di questa politica, insomma, in qualche maniera è nato anche senza la benedizione paterna di Bartolomeo Sorge. A suo modo. I mattoni van presi anche dal passato: perché il nuovo è anche il vecchio che cambia, senza esagerare, senza rimozioni. Vuol dire ricordarsi che i democristiani del Centro si sono messi con Berlusconi (che allora stoppò gli esagerati appetiti della Lega) e che, tra quelli della Sinistra, Marini (erede di Donat-Cattin?) era il perno organizzativo nel Partito Popolare di Rocco Buttiglione e che Ciriaco De Mita pendeva pure da quella parte. Ne ho fatto diretta esperienza quando l’attivismo della Sinistra Democristiana mi sostituì al vertice durante il Congresso dell’Ergife con Nicola Mancino, che si pensava portasse in dote i voti del Sud. Di troppi miracoli laici la politica non è capace, e dopo quello di Togliatti che riuscì a far coesistere il legame di ferro con l’Urss e l’impegno per la democrazia, è arduo pronosticare che la divina logica dell’ossimoro possa ripetersi con cadenze costanti.

 

Il maledetto (raramente benedetto) Cigno Nero di Taleb sempre compare e scompare senza preavviso. Destra Comunista e Sinistra Democristiana non riescono a baciarsi non per carenza di passione, ma per difetto di strabismo. L’una ha fissato il centro per una lunga stagione politica; l’altra ha passato la vita a prenderne le distanze: l’ipotesi riformista soffra anche di questa divaricazione. Studiarsi e studiare è obbligo non soltanto raccomandato da Zagrebelsky. Il partito va osservato (teoricamente e impietosamente) per quel che oggi è: come macchina e come antropologie. Leggere troppi libri serve a poco: sono questi uomini in carne ed ossa che bisogna decrittare. Tutti rincorrono la “visibilità”, che è uno dei maggiori mammona berlusconiani.

Uno si candida segretario regionale e contemporaneamente annuncia che correrà per la presidenza (il “governatorato”) della Regione di appartenenza. Mai il partito come cosa in sé, che attraversa le presidenze, i ministeri, gli assessorati e le loro competizioni per durare almeno due decenni. So benissimo che perfino gli ordini religiosi non si misurano più a secoli, ma questo rimpicciolimento temporale fa troppo rima con questa Italia “rimpicciolita” e triste, narrata in intervista da Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Puoi anche considerare alla Enrico Mattei il partito come un taxi, ma qualcuno il taxi deve averlo costruito e provvedere alla manutenzione… Meglio allora uno sguardo impietoso sugli ingranaggi attuali, perché una diagnosi che non fa sconti è la meglio premessa a quell’ottimismo della volontà che trascina con sé un Gramsci d’annata che tutti hanno smesso di bere. Tentare bisogna. Non c’è politica senza rischio, perfino il rischio della riuscita, come diceva Max Weber. Provando e riprovando. E una cinquantina di altri mantra dello stesso tipo. Purché nessun dorma né demorda. E allora anche un’imprevista edizione di una qualche “doppiezza” potrebbe perfino funzionare.

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