FCA straniera? Di chi è la colpa?

Se questo articolo fosse una fiaba potrebbe iniziare così: “C’era una volta, in un paese lontano lontano, una grande industria che si chiamava Fiat. Era talmente legata alla sua terra d’origine che conteneva, nel suo nome, il riferimento alla nazione e alla città dove era nata, unica azienda al mondo, in quel settore, ad avercelo così bene indicato (Fabbrica Italiana Automobili Torino). Si racconta che un suo principe (Giovanni Agnelli, senior o junior?) o un suo ministro (Valletta?) affermasse: ‘Quel che va bene alla Fiat, va bene anche all’Italia’, ma forse era solo un detto popolare, che però rispecchiava il vero”. La storiella potrebbe continuare ancora a lungo, ma questa non è una fiaba, e di reale c’è che oggi quello che fu il più grande gruppo industriale italiano non esiste più come nel tempo passato, perché, da alcuni decenni, le sue attività sono state via via scorporate, molte sono state cedute, altre sono confluite in una holding (chiamarla società finanziaria o capogruppo sembrerebbe troppo provinciale) e altre ancora fanno capo, ma in modalità differenti, alla ormai numerosa e ramificata famiglia Agnelli, arrivata alla quinta generazione, ora più di finanzieri che di industriali e, certamente, meno interessata di un tempo alle vicende nazionali e torinesi.

Negli ultimi anni la questione societaria più importante del gruppo è stata la fusione della quasi totalità delle sue aziende dell’auto con un produttore statunitense (Chrysler) e la costituzione di una nuova entità (FCA, Fiat Chrysler Automobiles), con sede fiscale in Gran Bretagna (per usufruire di una tassazione più favorevole) e sede sociale in Olanda (per utilizzare una legislazione che, in determinati casi, favorisce il controllo di una società anche se non si possiede la maggioranza delle azioni). Sono vicende molto note, ma complicatissime, che sono tornate all’attenzione della nostra politica e dei cittadini in occasione della richiesta di una società di diritto italiano del gruppo (FCA Italy, con sede a Torino) di usufruire del prestito a tassi agevolati e garantito dallo Stato, previsto dalle misure anticrisi decise dal Governo per sostenere la ripresa economica, dopo questi mesi di chiusure. Qualcuno sembra essersi svegliato dal torpore deindustrializzante che lo aveva avvolto da tempo immemore e ha denunciato l’orrenda richiesta straniera, non rendendosi conto che a chiedere l’accesso al prestito fosse una società italiana (pur appartenente a un gruppo estero) con quasi sessantamila dipendenti nella penisola e con un peso globale (indotto compreso) di quasi il 20% del nostro prodotto interno lordo. A memoria di cronista, invece, quasi nessuno si era scandalizzato quando furono decisi quei trasferimenti societari. Sarebbe stato lo stesso in Germania, se la Volkswagen avesse fatto un’analoga scelta? Invece il cronista pare rammentare che, in anni difficili, un capo di governo brianzolo avesse trattato come noiosi questuanti i vertici di quell’azienda che si trovavano in difficoltà, ricevendoli non a Palazzo Chigi, ma in una sua tenuta di campagna, poi rimandandoli a mani vuote.

Il rapporto tra la Fiat e i Governi italiani è sempre stato complicato, fin dal primo dopoguerra. Mussolini e Agnelli senior si detestavano, nonostante un’armonia di facciata, e il dittatore non amava né Torino (che sembra avesse definito “porca città”), né i suoi operai (che invece erano “l’aristocrazia operaia”, secondo Piero Gobetti), che per la maggior parte ne ricambiavano il sentimento. In una lettera al Prefetto di Torino, Mussolini così si esprimeva nel 1927: “Ad evitare il grave e assurdo pericolo che la Fiat finisca per considerarsi un’istituzione intangibile e sacra allo Stato, al pari della Dinastia, della Chiesa, del Regime e avanzi continue pretese, bisogna considerare la Fiat come un’intrapresa privata simile a migliaia di altre, del destino delle quali lo Stato può anche disinteressarsi. […] Il numero di operai passibili di licenziamento può essere elemento di considerazione benevola nel caso che la Fiat sia in linea con il regime;…”. Durante la prima Repubblica, negli anni del boom economico, a seconda dei periodi, l’azienda fu o subita o incoraggiata, sfruttata o sovvenzionata, favorita o osteggiata, sicuramente mai “guidata o indirizzata” dalla politica. Seguirono gli avvenimenti che partirono dall’“autunno caldo” del 1969 per finire alla cosiddetta “marcia dei quarantamila” di giusto quarant’anni fa, situazioni talmente complesse da non poter essere riassunte in poche righe, ma che ne incrinarono irreparabilmente i rapporti, con colpe ben distribuite tra i vari protagonisti. Nella cosiddetta seconda Repubblica, i Governi di centrodestra non avevano una visione del Paese, figuriamoci della sua industria, e quelli di centrosinistra, che forse l’avrebbero avuta, passarono troppo tempo a litigare tra loro, per combinare qualcosa di effettivamente valido industrialmente. Per brevità non possiamo commentare quello attuale o il precedente,…

Quindi, l’oggi italiano del dopo virus, tra le tante tragedie vissute, subisce anche i negativi effetti di un tessuto produttivo nazionale in difficoltà e quasi smantellato, in molti casi pure di proprietà estera. Detto ciò, e in considerazione del fatto che non bisogna sbagliare le scelte decisive per far ripartire il Paese, la concessione o meno di un prestito deve dipendere solo da condizioni uguali per tutti i richiedenti ed essere valutato con criteri oggettivi, e non può essere subordinata ai pregiudizi ideologici di chi, forse, non è neanche in grado di distinguere un tornio da una fresa.

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