Più tasse per tutti

Sono numerosi in questi giorni i ringraziamenti per medici, infermieri e personale sanitario, che fronteggiano in prima linea l’epidemia da Covid-19. Sono tanti anche i ringraziamenti alla Protezione Civile e alla Forze dell’ordine, che svolgono una preziosa opera di supporto. Ma bisogna anche ringraziare coloro che rendono possibile tutto questo.

Sono i cittadini che da sempre pagano onestamente le tasse. Perché la gran parte di ciò che si sta facendo per contrastare il virus e i suoi effetti nefasti sulla salute e sull’economia è pagato con soldi pubblici. Non dimentichiamolo, perché questa è una verità fondamentale, che occorrerà tenere ben presente quando, a fatica, usciremo da questa fase di emergenza e cercheremo una ripresa sociale ed economica, che dovrà però essere anche politica e, soprattutto, culturale. Altrimenti non ci sarà.

È difficile argomentare cosa si debba fare uscendo dal tunnel, quando si è ancora nel pieno delle tenebre e non si vede l’uscita, però è proprio oggi che dobbiamo decidere quale strada imboccare quando ci troveremo di fronte al bivio che ci aspetta, sapendo che possiamo anche riprendere la strada attuale, ma questa inevitabilmente ci riporterà agli stessi problemi che ci attanagliano ora.

Diciamo questo perché già troppe voci, in politica ma anche nell’opinione pubblica, invocano le stesse ricette perseguite in precedenza, nonostante i risultati siano stati a dir poco deludenti. In particolare, risuona l’ennesimo appello ad “abbassare le tasse e ripartire con le infrastrutture”, lo stesso degli ultimi trent’anni, ripetuto da coloro che in questi decenni hanno governato a lungo, provando a mettere in pratica queste loro politiche e lasciandoci in eredità un Paese sull’orlo del collasso socio-economico, per il quale questa emergenza sanitaria rischia di essere la mazzata finale.

Partiamo dalla richiesta di abbassare le tasse, ribattendo con uno slogan tipo “più tasse per tutti”.

Conoscendo i nostri concittadini, è probabile che la maggior parte si concentrerà sul “più tasse”, mentre invece il nodo è “per tutti”. Perché, come abbiamo detto all’inizio, a fronte di una moltitudine di cittadini che hanno pagato onestamente – e anche pesantemente – le tasse, ci sono parecchi che hanno pagato molto meno di quanto dovevano e potevano, o non hanno pagato affatto. E non ci riferiamo al proverbiale idraulico che ti ripara il lavello senza fare fattura, ma a livelli ben più elevati.

Infatti, coloro che si lamentano che finora non sono state abbassate le tasse, dimenticano che in tempi recenti sono state di fatto abolite l’imposta di successione e quella sulla prima casa, avvantaggiando le classi abbienti, già favorite da una tassazione che, mediamente, colpisce meno i redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro, visto che le aliquote su interessi e dividendi sono minori rispetto a quelle sul reddito, sia dei salariati, sia degli autonomi. Ora, se da un lato è giusto non tassare l’abitazione di chi possiede un bilocale in periferia, dall’altro è iniquo fare altrettanto per i proprietari di immobili di pregio in zona residenziale. Analogamente, non si può mettere sullo stesso piano chi riceve in successione i risparmi dei nonni con chi eredita imperi finanziari. Quanto all’aliquota massima Irpef, si è scesi dal 72 al 43%, a onta della progressività fiscale. Più che abbassare le tasse, insomma, occorre spostare il carico fiscale verso i redditi elevati, per alleviare il peso che grava sulle classi medie e basse.

Inoltre è imprescindibile un deciso recupero fiscale da chi elude – ovvero effettua maneggi contabili per spostare il reddito dove la tassazione è più favorevole, come fanno i colossi del digitale e svariate multinazionali – e da chi evade, comportamenti che determinano minori entrate nelle casse statali, fattore che prelude a una contestuale riduzione della spesa pubblica, cosa che in questi anni si è concretizzata con tagli sempre maggiori allo stato sociale e ai servizi per i cittadini.

A farne le spese è stata in primis proprio la Sanità pubblica, della cui importanza ci stiamo drammaticamente rendendo conto negli attuali frangenti. Da un’analisi della fondazione Gimbe riportiamo che «Nel periodo 2010-2019 sono stati sottratti al Servizio sanitario poco più di € 37 miliardi, di cui circa € 25 miliardi nel 2010-2015 per la sommatoria di varie manovre finanziarie e € 12,11 miliardi nel 2015-2019 per la continua rideterminazione al ribasso dei livelli programmati di finanziamento». Una riduzione che secondo i programmi avrebbe dovuto proseguire anche nell’immediato futuro, a meno che dopo questo shock si decida finalmente di invertire la tendenza.

Più in generale, tutti si sono resi conto che occorre più Stato, più intervento pubblico, anche quelli che prima osannavano il libero mercato, palesemente inadeguato a fronteggiare una crisi sistemica come quella attuale, causata da un evento imprevisto – ma non imprevedibile – che ha mostrato la fragilità di una globalizzazione che ci ha resi troppo interdipendenti, nella quale l’inceppamento di un singolo ingranaggio mette a rischio tutto il processo produttivo. In nome della competitività e del profitto si è sacrificata la sicurezza e la resilienza, costruendo un sistema produttivo che il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha efficacemente definito come “senza ruota di scorta”, accessorio che può sembrare inutile, finché non ti trovi in emergenza.

Queste considerazioni implicano che occorre cambiare il modello di sviluppo seguito finora e bisogna farlo in modo radicale. In Europa, il dibattito si è nuovamente concentrato sui parametri finanziari, col consueto scontro fra i sostenitori dell’austerità, che li considerano dogmi inviolabili, e coloro che ritengono indispensabile una cospicua immissione di liquidità nel sistema, da finanziare col debito pubblico. Questi ultimi sembrano ora avvantaggiati rispetto ai primi, che con il loro rigorismo hanno contribuito non poco a prolungare la fase recessiva. Ma questo approccio contiene un’insidia e non prende in considerazione un altro aspetto della questione.

L’insidia è che, dopo anni di tagli esasperati allo stato sociale, giustificati dall’esigenza (?) di diminuire il debito pubblico, ora lo si faccia riesplodere nuovamente per rifinanziare il settore privato, socializzando le perdite di chi per anni ha incassato i profitti, come è avvenuto con la crisi delle banche nel 2008. Ed è proprio questo ciò che manca nella visione di chi invoca l’aumento della spesa statale: la necessità di recuperare una parte di quella enorme fetta di ricchezza accumulata da pochissimi. Insomma, questo è il momento di eliminare i paradisi fiscali, almeno quelli all’interno della stessa Europa, sui quali la UE può certamente intervenire, recuperando gettito dai grandi patrimoni, dagli elusori, dagli stessi “mercati”, per evitare di scaricare successivamente i costi di un debito pubblico insostenibile ancora sulle classi meno abbienti. Ma ci sembra che questo aspetto cruciale non entri minimamente nel dibattito politico.

Inoltre, non basta una pioggia di soldi pubblici, e nemmeno il doveroso recupero della ricchezza privata occultata indebitamente. È importante anche il “come” questi soldi vengono spesi, tenendo a mente che “crisi”, in greco, significa discernere, valutare. Ha dunque anche un significato positivo, oltre all’accezione negativa divenuta di uso comune. Occorre discernere su quali direttrici impostare la ripresa, con la consapevolezza che serve cambiare paradigma.

Ecco allora che diventa imperativo riaffermare il primato della politica sull’economia, in particolare disegnando finalmente una politica industriale che punti alla costruzione di una filiera produttiva sostenibile e locale, che possa garantire sicurezza al sistema-Paese, evitando di essere dipendenti da un mercato globalizzato che ha mostrato tutti i suoi limiti. Non si tratta di tornare all’autarchia, ma di capire che alcune produzioni strategiche non possono essere delocalizzate, prima fra tutte quella del cibo, che deve assicurare una sovranità alimentare che invece negli ultimi anni abbiamo in parte perduto. In generale, occorre indirizzare i finanziamenti verso quella parte di imprenditoria che si impegnerà a creare lavoro e reddito sul territorio nazionale, o a far rientrare le produzioni delocalizzate in precedenza.

E, in quest’ottica, occorre tornare a focalizzare l’attenzione sulla produzione, invece che sullo scambio. Produrre e consumare localmente, senza rinunciare all’export, naturalmente, ma evitando quel turbinio esasperato di merci e logistica che è alla base della costante richiesta di infrastrutture. Il modello “sviluppista”, basato sulla crescita continua, che nel nostro Paese è stato declinato sostanzialmente attraverso continue colate di cemento, sta evidenziando tutti i suoi limiti. Anche se alcuni vetero-capitalisti continuano a sostenerlo, occorre superarlo per poter ripartire efficacemente. Tanto più che l’infrastruttura più ampia per il trasporto delle merci, ce l’ha messa a disposizione la natura, gratis. Si chiama “mare”, e circonda la nostra penisola su tre lati, ben più esteso e capillare di qualunque rete stradale o ferroviaria. E i porti ci sono già.

Il collasso sistemico che seguirà all’emergenza sanitaria può involversi nello sperpero di denaro pubblico per rifinanziare un modello economico agonizzante, o può diventare l’occasione per puntare finalmente a qualcosa di nuovo, investendo nella scuola, nella sanità, nella ricerca, nello sviluppo tecnologico e costruendo quella economia circolare che con la sua sostenibilità intrinseca può ridarci un benessere di lungo periodo ed evitarci guai peggiori in futuro.

Anche perché l’aggressione di questo virus ci ha insegnato – o dovrebbe averlo fatto – un’altra cosa importante, ovvero lo sfasamento temporale fra azione e risultato. Abbiamo imparato che i risultati delle misure antivirus potevano essere visti solo dopo dieci o quindici giorni, il tempo di incubazione della malattia.

Ebbene, lo stesso principio vale per un problema altrettanto globale, potenzialmente anche più grave, ma molto sottostimato: il cambiamento climatico. In questo caso, lo sfasamento temporale fra le nostre azioni e i risultati è ben più elevato, 10-15 anni o anche più, ma porre in atto delle misure di contrasto è altrettanto vitale. Questa pandemia può darci occasione per farlo, perché non c’è dubbio che segnerà uno spartiacque dopo il quale il mondo non sarà più come prima. Se però sarà migliore o peggiore non dipende dal virus, ma da noi.

Print Friendly, PDF & Email

Rispondi a Antonella Domine Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.