Ripensare la liturgia. Se i divieti e le limitazioni di questo tempo fossero occasione di novità

Mi ha sorpreso la ferma presa di posizione di Andrea Riccardi, solitamente equilibrato e dialogante, nel suo scritto del 29 febbraio su La Stampa a proposito delle misure precauzionali adottate: “La chiusura di tante chiese nel Nord Italia, la sospensione delle messe, i funerali solo con i familiari e misure del genere mi hanno lasciato una certa amarezza. [..] La prudenza serve, ma forse ci siamo fatti prendere la mano dalla grande protagonista del tempo: la “paura”. Peraltro negozi, supermercati e bar (in parte) sono aperti, mentre bus e metro funzionano. E giustamente. Le chiese invece sono state quasi equiparate a teatri e cinema (obbligati alla chiusura). [..] Che pericolo sono le messe feriali, cui partecipa un pugno di persone, sparse sui banchi in edifici di grande cubatura? Meno che un bar o la metro o un supermercato. [..] Un forte segnale di paura. Ma anche l’espressione dell’appiattimento della Chiesa sulle istituzioni civili. [..] I tempi cambiano, ma le recenti misure sul coronavirus sembrano banalizzare lo spazio della Chiesa, rivelando la mentalità dei governanti”.

E’ vero che le Chiese si sono “appiattite” sulle Istituzioni civili e sulla volontà dei Governanti? E’ vero che ci si è fatti prendere dalla paura in modo esagerato? E’ vero che la mentalità dei Governanti banalizza lo spazio delle Chiese?

Forse le cose sono più articolate e le precauzioni adottate non significano solo paura e banalizzazione nel considerare Chiese, Scuole, Cinema, Stadi e Palestre allo stesso modo. Se si fosse adottata la linea “più permissiva” e del “continuiamo la vita di sempre” affollando i contenitori stando solo attenti a non toccarsi le mani o a mantenere distanze accettabili, non avremmo accusato di superficialità i responsabili in caso di diffusione del virus? Diffusione che, peraltro, si sta verificando nonostante gli accorgimenti.

Che, poi, esistano politici che hanno una considerazione del ruolo comunitario della religione e dell’importanza non solo spirituale delle celebrazioni eucaristiche (“andate la Messa è finita, ma inizia fuori di Chiesa”) prossima allo zero, non significa che si sia voluto penalizzare “il settore” approfittando delle contingenze.

E’ vero piuttosto che limitare o vietare “per evitare assembramento” le Messe, soprattutto nei giorni feriali, mentre treni, bus, metropolitane, supermercati (essenziali per la vita del Paese) funzionano normalmente e senza controlli può davvero sembrare un controsenso, un eccesso. Ma eviterei polemiche su aspetti che non danneggiano niente e nessuno: pregare in casa, anche da soli, è sempre consentito e la situazione può aver aiutato a riscoprire pratiche abbandonate per la fretta e gli impegni.

Piuttosto va rilevato in negativo che, more solito, chi si lamenta di più o polemizza per le limitazioni “religiose” sono coloro che normalmente dello spirito e della coerenza solidale e misericordiosa del cattolicesimo se ne infischiano. Estranei, disinteressati, poco praticanti, ma pronti nel rivendicare “le nostre tradizioni” e gli spazi “della nostra religione”, i presepi, le croci appiccicate ai muri, le processioni (anche se loro non vi partecipano), le ceneri, l’ulivo, l’acqua santa.

Veniamo invece all’accusa maggiore: le Chiese (e per esse i Vescovi/parroci) si sono appiattiti! Intanto credo che vada riconosciuta la loro disponibilità responsabile a tener conto delle disposizioni generali. Come è brutto vedere che ogni comparto, dal calcio in avanti, tutti a guardare il proprio ombelico! Certo ci sono interessi economici in gioco. Il Governo dovrà (lo sta facendo) tenerne conto: perché i danni sull’economia non saranno cosa lieve! Dal turismo alle esportazioni, dai ristoranti alle giostre e alle fiere espositive tutti sentiranno ricadute negative che abbisogneranno di interventi decisi anche con sforamento del deficit (evitando le furbizie nazionali che dimenticano l’ingente debito pubblico).

Perciò vedere che la “parte cattolica” non è insorta, quasi sentendosi parte a sé del Paese, è stata cosa positiva. Ciò non ha impedito che anche Conferenze Episcopali, nazionale e regionali, abbiano contrattato su modalità e tempi per tornare il più presto possibile alla normalità delle celebrazioni.

Inoltre, a mo’ di esempio, vanno tenute presenti le dichiarazioni dell’Arcivescovo di Milano Mons. Delpini ad Avvenire del 1 marzo, con le quali si intende ricordare che la religione non è esclusivamente partecipazione liturgica. «Con il popolo, le Chiese di Lombardia, lo sono ogni giorno. Nella prossimità con i poveri, i malati, gli anziani». [..] «Il Signore è là dove c’è un figlio che soffre, una famiglia nella trepidazione, un uomo che muore. Ed è là come Salvatore. La Chiesa esprime questa vicinanza con la sollecitudine per i malati, nel servizio». «Questo temporaneo digiuno eucaristico[..] forse può rafforzare la nostra ‘fame’ di partecipazione eucaristica. E, intanto, può farci sperimentare le fatiche di quelle comunità dove si celebra la Messa una volta al mese o meno, perché mancano i preti, o dov’è pericoloso radunarsi perché mettono le bombe nelle chiese. Forse in tanti torneremo ad apprezzare quello che per noi è normale: andare a Messa senza disagio. Fa anche specie che vi siano malattie guaribili che continuano a flagellare i popoli poveri. Il sistema mondiale forse ritiene che non meritino di essere curati per il semplice fatto che non possono pagare: è grave e sconcertante». Di fronte ai disagi di questi giorni si deve anche considerare importante «L’idea che la comunione dei santi è più reale della compresenza in un posto, è un aspetto della nostra fede».

Mi ha colpito poi positivamente, e la riporto una breve storia confezionata per l’occasione, ma che fa riflettere sul significato del sacrificio eucaristico, che ha come conseguenza la comunione fra le persone e il donarsi ai fratelli:

“Cronache dal 2020

L’Eucarestia e la Parola al tempo del coronavirus

Al tempo del coronavirus molte chiese furono chiuse e molte messe domenicali vennero annullate. Si racconta che fossero celebrate messe dal solo sacerdote in chiese deserte. Come una partita di calcio o uno spettacolo teatrale, si moltiplicarono le messe in collegamento Skype o in streaming. Le autorità ecclesiastiche accettarono le indicazioni di quelle sanitarie, ma si lamentarono della situazione e avvertirono il pubblico che il precetto festivo era sospeso.

Fu a quel tempo, tuttavia, che molti si ricordarono che la messa non era un rito sacrificale, ma la cena del Signore, durante la quale si spezzava e condivideva il pane e si beveva il vino alla stessa coppa. Fu il tempo in cui l’espressione “famiglia piccola chiesa” trovò il suo profondo significato: famiglie grandi o piccole, da sole o con gli amici più intimi o addirittura con i condomini, con i quali non si salutavano neppure in ascensore, si riunirono in casa, attorno al tavolo della cucina o della “sala buona”: si mangiava qualcosa, la signora della porta a fianco aveva portato una sua frittata speciale, uno dei figli leggeva un brano del Vangelo, riscoprendo che Eucarestia e Parola erano la stessa cosa, qualcuno faceva un breve commento, poi ci si guardava in faccia per confermare un’amicizia e un amore da portare fuori, oltre quel momento di condivisione. Poi il papà o la persona più anziana, spesso la nonna, spezzava un pane fragrante e versava un po’ di vino in un bel bicchiere. Tutti si passavano pane e vino. Quando due o tre si riuniranno in mio nome, io sono in mezzo a loro (Matteo, 18, 20).

Poi il coronavirus se ne tornò in Cina, le chiese e i teatri si riaprirono, il rito della messa riprese con le sue moltitudini anonime. L’unico ricordo furono le acquasantiere riempite di amuchina.

Giovanni de Gaetano”

Questo dovremmo ricordare per il dopo epidemia. L’effetto spirituale delle celebrazioni eucaristiche non è proporzionale alla coreografia, alla ricchezza dei paramenti, alla solennità di canti e preghiere, al numero delle persone presenti, alle forme.

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