La sostenibilità per superare l’emergenza coronavirus

Dopo il corto circuito fra politica, istituzioni e informazione che ha generato una narrazione a livello mondiale dell’Italia come una delle nazioni più colpite dall’infezione da coronavirus, e dopo le opportune ricalibrazioni del messaggio più aderenti alla realtà, viene il tempo per riflettere con più equilibrio sugli aspetti in gioco di questa vicenda. In particolare per ciò che riguarda il sistema-Paese, il valore strategico della collaborazione, del partenariato tra singoli, corpi intermedi e istituzioni e, infine, ma non per ultimo, la capacità di adeguare o di cambiare il modello di sviluppo in relazione al nuovo ciclo economico mondiale.

Troppo spesso diamo una rappresentazione del sistema-Paese eccessivamente negativa. I motivi per farlo non mancano, tuttavia nel complesso la vicenda coronavirus sta dimostrando che siamo uno dei Paesi dove la macchina della prevenzione e dei controlli funziona meglio a livello europeo e globale. I controlli fatti in modo sistematico hanno finito per determinare un più (relativamente) alto numero di casi di contagio di questo virus (che restano comunque assai più bassi e meno nocivi delle altre patologie stagionali). A ben vedere anche in campo sanitario l’Italia ha dato prova di una efficace opera di monitoraggio e di contrasto che, come ha osservato il presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara, dimostra anche in altri campi: dalla lotta alla corruzione, alla criminalità organizzata, alle frodi alimentari. Questa maggiore efficienza fa aumentare l’indice percepito dei suddetti fenomeni negativi, ma contribuisce ad abbassarne l’indice oggettivo, la reale incidenza.

Un secondo aspetto su cui riflettere è costituito dall’importanza della collaborazione fra persone, corpi intermedi e istituzioni a tutti i livelli, come invita a fare l’Obiettivo 17 dell’Agenda Onu per lo Sviluppo Sostenibile, in particolare nel Target 17, laddove invita a “incoraggiare e promuovere efficaci partenariati tra soggetti pubblici, pubblico-privati e nella società civile”. Serve una effettiva condivisione delle responsabilità di ciascun soggetto, delle rispettive reti. In questo senso la lotta al coronavirus può divenire una grande occasione per rafforzare meccanismi di governance improntati alla coesione, dal livello locale a quello europeo e globale. Perché una tale azione risulti incisiva occorrono però efficienti e forti infrastrutture dello sviluppo. Il welfare è una di queste. Va gestito con criteri oculati, ma non si può considerare un costo, bensì un investimento per il bene comune. In particolare la presenza o meno di un valido sistema sanitario nazionale pubblico sta facendo la differenza di fronte a questa epidemia. E i Paesi che non ce l’hanno, o che lo hanno smantellato, ne avvertono la mancanza.

C’è una terza grande questione che l’emergenza coronavirus pone alla nostra attenzione. Questa epidemia sta aggravando una situazione già molto critica a livello economico e finanziario. Il blocco della “fabbrica del mondo”, la Cina, che produce ormai un quinto del pil mondiale e che già soffriva del rallentamento del commercio mondiale, dovuto, fra le altre cose, alla strutturale diminuzione della capacità di consumo della classe media occidentale, impone una riflessione urgente ed approfondita sulla validità del nostro modello economico, quello adottato in Europa nell’ultimo decennio, anche da grandi Paesi come l’Italia e la Francia, potenze manifatturiere sì, ma tradizionalmente non “mercantiliste”, ovvero attente a mantenere un equilibrio tra la competitività e la domanda interna, la qualità della vita e il welfare. In una fase, come quella attuale, in cui crisi di natura diversa (ambientale, sociale per le grandi disuguaglianze, economico-finanziaria, ma anche internazionale, si pensi ai rapporti ormai al massimo livello di tensione tra Russia e Turchia, che è membro della Nato) si stanno sommando, rischiando di esplodere simultaneamente, il pericolo peggiore, per l’Italia, e per l’Europa, è costituito dall’immobilismo. La crisi, acuita dal coronavirus, di un modello economico basato sulle esportazioni – e sulla conseguente “moderazione” salariale, su una alta pressione fiscale e una contestuale riduzione dei servizi e degli investimenti pubblici – deve divenire l’occasione per aprire un dibattito, come sta avvenendo negli Stati Uniti a causa della campagna elettorale per le primarie e le presidenziali del prossimo novembre, su quanto si possa ancora considerare sostenibile un modello economico “monetarista”, che subordina ad una presunta e, alla fine, illusoria stabilità monetaria, la vitalità dell’economia reale, l’imprenditività, la voglia di futuro e di riduzione delle disuguaglianze dei popoli e soprattutto delle giovani generazioni. Per l’Italia è, e lo sarà ancor di più negli anni a venire, una questione di vitale importanza, non in senso figurato bensì nel senso letterale di tale espressione.

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