CANDIDI COME SERPENTI La legge di Bontadini

Frequento poco il Palazzo perché da milanese mi trovo a gestire il mio pregiudizio antiromano. Innamorati di Roma, ma antagonisti; così come le province lombarde si trovano a gestire un pregiudizio antimilanese. Succede nei partiti, nei sindacati, nelle Acli, nelle bocciofile. E però quando sono nella Capitale frequento il ristorante della Camera, caro ricordo. È a un tavolo del ristorante che mi si è seduto difronte Rocco Buttiglione. Antica amicizia, mai interrotta, neppure quando ci contrapponemmo rumorosamente dopo che lui aveva firmato a via Dell’Anima. E del resto mai toponomastica risultò più inappropriata. Rocco mi ha offerto il pranzo che nel mio caso risponde ai criteri di un vegetariano praticante ma non credente… Mi ha anche fatto il regalo di introdurmi alla legge del Bontadini, che io ignoravo pur essendomi laureato alla Cattolica. Sosteneva infatti il Bontadini – additato da Emanuele Severino come la più alta mente metafisica del dopoguerra – che un professore evita di mettere in cattedra l’allievo migliore per non correre il rischio di passare alla storia come “il maestro di”. E così si dipana la catena accademica, scivolando sempre più in basso come lungo montagna di sapone. Finché si arriva finalmente al meno dotato di tutti che, ovviamente sbagliando, mette in cattedra il migliore tra i discepoli. E il gioco ricomincia. Ora pare a me che la legge di Bontadini risulti rigorosamente applicata anche alle carriere politiche, a testimoniare la verità hegeliana che recita che sempre la politica nasce da quel che politico non è: un mantra. Ma allora perché continuare studi matti disperatissimi su Weber, Mosca, Pareto e il riformista Michels che, in quanto tale, ha studiato la socialdemocrazia tedesca e le sue incrostazioni e poi l’area similriformista che faceva politica in Italia? Basta e avanza Konrad Lorenz, quello di L’anello di Re Salomone, le sue taccole, l’ochetta Martina, i suoi cani, i comportamenti, l’attitudine a marcare il territorio con opportune emissioni di urina: tutto ciò descrive gli attuali costumi politici, e perfino dà ragione di alcune perversioni parassitarie (dei politici, non dei cani) quando ti imbatti in personaggi che prediligono un territorio più piccolo perché più controllabile, e quindi al riparo dai concorrenti interni: perché in politica è sempre il fuoco amico a risultare il più insidioso. L’inerzia e la durata di questo ceto politico – che ha subito nel frattempo un’autentica mutazione antropologica – è assicurata dalla legge elettorale messa a punto dal leghista Calderoli (cui ha fatto da battistrada la Regione Toscana) e la cui definizione è stata tosto latinizzata per questioni di decoro: il porcellum. Esito del suddetto porcellum è di avere trasformato partiti, fondazioni e correnti in tribù, clanicamente e interessatamente asservite ai rispettivi capi-tribù. Si è anche sostenuto che con la scelta dall’alto – che non fa eleggere parlamentari ma li nomina – si è evitata la “corruzione possibile” insita in quelle preferenze demandate all’elettore che fanno lievitare il costo delle campagne elettorali. Una vera patacca, dal momento che la logica del porcellum consiste come roccioso macigno: non si dà democrazia rappresentativa senza rappresentanza. Così è: tutto il resto viene dal maligno o dalla stupidità, che in politica fa danni assai peggiori della malvagità. Perché un malvagio lo puoi convertire, ma a uno stupido cosa gli fai? Così ragionando sui casi italiani e sui rischi implosivi della nostra democrazia mi sono dimenticato di ripagare Rocco per la sua erudizione sulla legge di Bontadini, divertendolo a mia volta con la citazione di un fatto realmente accaduto agli esami scolastici, dove, richiesta del nome del condottiero della crociata contro Saladino, l’alunna ha risposto: Rocco di Buttiglione. È andata ancora bene agli arcigni professori: poteva capitargli di sentirsi evocare Brancaleone da Norcia.

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