Brexit, l’addio di Londra all’Europa

L’ora della Brexit è arrivata e, come per tutte le separazioni, si prova un po’ di tristezza. Eppure questa è la scelta liberamente compiuta dalla maggioranza dei cittadini britannici e in democrazia, come tutti sanno, è la maggioranza che decide per tutti.

L’Unione europea perde uno dei suoi membri più importanti (perché Londra non è una capitale qualunque), scendendo da 28 a 27 Paesi. Se ne va una grande nazione che, forse, all’Unione non ha mai creduto veramente, ma che, per un certo periodo della sua storia recente aveva provato, in qualche modo, a crederci. In questa fine gennaio che segna l’uscita britannica dal consesso comunitario, il pensiero corre ad un altro gennaio, quello del 1973, quando, proprio il giorno di Capodanno, la Gran Bretagna entrò, assieme alla Danimarca e all’Irlanda, in quella che era allora la Comunità europea.

Un cammino costellato di ostacoli, quello dell’approdo di Londra nel club europeo, complicato quasi quanto il tentativo di uscirne. La prima richiesta di adesione portava la data del 1961, con la firma di Harold Mac Millan, un conservatore che credeva nell’Europa. Super Mac, come era simpaticamente chiamato dai suoi concittadini, trovò però la porta sbarrata. Dopo due anni di attesa, all’inizio del 1963, Charles De Gaulle oppose il veto francese all’ingresso della Gran Bretagna, ritendolo un Paese con lo sguardo puntato verso gli Stati Uniti e verso il Commonwealth, con una sua specifica vocazione insulare che mal si sarebbe conciliata con l’appartenenza alla Comunità europea. Vedeva davvero lontano il Generale e, tutto sommato, alla fine ha avuto ragione.

Una volta entrati, i britannici sono stati sin da subito una spina nel fianco della Cee, frenando qualsiasi forma di intesa europea che non fosse quella di una liberalizzazione dei commerci e dei capitali. Con Londra il tasto dell’integrazione politica non ha mai funzionato. E infatti, dopo le baruffe di Margaret Thatcher per riavere indietro i contributi versati nelle casse comunitarie, è stato tutto un susseguirsi di obiezioni e distinguo. Niente moneta unica e, quindi, niente unione bancaria. Meno che mai quella fiscale, peraltro frenata anche da Paesi come l’Olanda o il Lussemburgo, con la loro scandalosa concorrenza al ribasso.

Poi nel 2016 il botto finale. La demagogia di David Cameron ha prodotto il disastro, con un referendum che nessuno aveva chiesto, che pensava di vincere e che invece, come spesso capita quando si dà la voce al popolo (la democrazia è bella per questo) ha finito per perdere. Quel giorno si è anche chiusa la sua carriera politica ed è toccato ai suoi successori – Theresa May e Boris Johnson, attuale premier – condurre in porto l’uscita britannica.

Adesso ci siamo. Tra poco inizierà un periodo transitorio per ridefinire i rapporti tra Londra e l’Unione, sempre augurandosi che questo non significhi anche il ritorno ai passaporti, ai visti o ad arnesi del genere.

In quest’ora un po’ mesta, il pensiero va però a quella magnifica Gran Bretagna che nel 1940 tenne testa, da sola, alla Germania nazista che occupava l’intero continente europeo e che pareva invincibile. Agli inglesi dobbiamo un bel pezzo della nostra libertà. Un debito di riconoscenza che nulla e nessuno potrà mai cancellare, sperando che un giorno ci si possa ritrovare di nuovo insieme.

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