Piersanti Mattarella, 40 anni dopo

Era una domenica, il giorno dell’Epifania del 1980, quando a Palermo venne ucciso Piersanti Mattarella, presidente della regione siciliana, freddato in auto, davanti alla moglie e ai figli. Nuovo delitto eccellente di una mafia che alzava davvero il tiro verso le istituzioni, dopo che l’anno precedente erano stati colpiti il segretario provinciale della Dc, Michele Reina. il capo della Mobile palermitana Boris Giuliano e il giudice Cesare Terranova.

L’assassinio di Mattarella – fratello del nostro attuale Presidente della Repubblica – segnò però un’ulteriore escalation della violenza mafiosa e in pochi anni cadranno in Sicilia il procuratore di Palermo, Gaetano Costa, il deputato comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, da pochi mesi prefetto di Palermo, e il giudice Rocco Chinnici. In anticipo di un decennio alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, dove trovarono la morte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro rispettive scorte.

Una criminalità pronta a tutto, anche a sfidare lo Stato e le istituzioni democratiche con una scia di sangue di cui tragica avvisaglia fu proprio l’agguato a Piersanti Mattarella nei primi giorni del 1980. Da presidente della regione si era impegnato nella modernizzazione dell’amministrazione regionale, con nuove regole sugli appalti e sui collaudi delle opere pubbliche, toccando delicati interessi precostituiti. Particolarmente rigoroso si rivelò con il suo partito, una Dc che, dopo decenni di incontrastata guida del governo regionale, vedeva allignare al proprio interno centri di potere spesso contigui con pezzi di malaffare.

Una collusione tra spezzoni della politica siciliana, e non solo, con le articolazioni mafiose, che ai primi assicurava pacchetti di voti (anche grazie a quelle preferenze multiple con cui si controllava agevolmente il territorio) e alle seconde una buona dose di impunità. Un patto scellerato proseguito per anni e che forse anche oggi, sotto forme magari più sofisticate e meno virulente, è in qualche modo ancora presente, sebbene da allora le cose siano parecchio cambiate, soprattutto sul piano culturale.

Basti pensare, solo per fare un esempio, al mutamento avvenuto dentro la Chiesa. Ancora all’inizio degli anni Sessanta l’arcivescovo di Palermo, Ernesto Ruffini, negava addirittura l’esistenza della mafia, mentre venti anni dopo un suo successore, Salvatore Pappalardo, ai funerali di Dalla Chiesa parlò di una Sagunto assediata, sino alla scossa impressa da Giovanni Paolo II che, nel 1993 dalla valle dei Templi, gridò ai mafiosi di convertirsi, togliendo loro quella pseudo rispettabilità religiosa di cui si facevano forti.

Più in generale oggi vi è una maggior consapevolezza del fenomeno mafioso, determinata da una crescita culturale e civile dell’intero tessuto siciliano e palermitano in particolare. Un salto di qualità etico dovuto in special modo alle giovani generazioni che non perdono occasione di scendere in piazza a favore della legalità. Detto tutto questo non è certo il momento di abbassare la guardia. Guai a credere che la criminalità mafiosa, così come altre forme delinquenziali quali l’ndrangheta, siano state sconfitte. Fiumi di denaro tra appalti, droga, prostituzione, immigrazione clandestina, trattamento dei rifiuti, nei suoi mille rivoli di illegalità continuano a dar forza a queste organizzazioni criminali. Il fronte investigativo e giudiziario deve essere continuamente irrobustito, senza immaginare, in alcun modo, di abolire il regime carcerario del 41 bis che tanto ha contribuito a isolare i mafiosi dal loro humus criminale.

Risolutezza ed energia repressiva non debbono pertanto mai mancare, puntando poi, al tempo stesso, a far emergere sempre più quell’educazione alla legalità che investe lo Stato e la nostra democrazia, ma che comincia già nelle nostre case, con l’esempio, piccolo ma decisivo, che diamo ai nostri figli, alle generazioni dell’Italia di domani. E in tal senso, far conoscere ai più giovani la figura di Piersanti Mattarella – ripensando alla sua morte, cogliendone l’insegnamento – è anche un modo di contribuire a far crescere questa cultura della legalità.

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