Una “Tosca” scura e teatrale secondo Chailly e Livermore

L’opera di Puccini trionfa al Teatro alla Scala per l’apertura di stagione.

Il “marchio” Scala, con tutto ciò che ad esso è correlato, si ritrova ancora una volta vincente nello spettacolo inaugurale della stagione 2019-2020, con Tosca di Giacomo Puccini.

Come ogni anno, il 7 dicembre scatena fiumi di dibattiti; “finalmente si parla d’opera lirica” – si dice coralmente –  come in nessun altro momento dell’anno, sia sui giornali, che solitamente la trascurano alquanto, sia sui social, dove si scatenano infuocati scambi d’opinione quasi calcistici sugli esiti di questo sempre attesissimo appuntamento annuale, trasmesso in diretta in televisione su Rai 1, con ascolti da record. Insomma, anche quest’anno la Scala vince la sfida della sua serata d’inaugurazione, mettendo in scena uno spettacolo premiato da consensi quasi tutti unanimi e da un tripudio di applausi.

La Tosca che la Scala propone, con un sold out per tutte le recite in cartellone, è nella versione che il Direttore musicale, Riccardo Chailly, vuole come omaggio alla prima esecuzione assoluta romana del 14 gennaio 1900, ripresentando tutte le pagine che poi Puccini tolse nelle versioni successive. Si tratta di otto inserti che l’ascoltatore attento subito individua, seppure non così evidenti ed ampi come lo furono quando Chailly decise, da esperto filologo e cultore pucciniano, di offrire un’altra versione originale, quella di Madama Butterfly. Per Tosca balzano all’attenzione le battute di Cavaradossi (“Non è arte, è amore, è amore, è amore”, con la risposta di Tosca: “Sì, sì, ti credo…”) a seguito della frase di Tosca “Oh come la sai bene, l’arte di farti amare!”, il diverso Te Deum, la versione assai più lunga della scena della morte di Scarpia, con un passaggio orchestrale di quattordici battute vagamente espressionista che sembra accentuare l’atmosfera hitchcockiana della scena e il più elaborato finale dell’opera, sia con la ripresa del tema di “E lucevan le stelle” sulle parole pronunciate da Tosca sul cadavere di Cavaradossi, sia dopo le parole di Tosca “O Scarpia, avanti a Dio!”, con l’orchestra che presenta una ripresa integrale del motivo dell’aria. La nuova edizione critica di Roger Parker svela altri particolari che si aggiungono a quelli appena citati, utili appunto a farci sentire l’opera esattamente uguale a come venne ascoltata dal pubblico romano che assistette alla prima assoluta e, come si è detto, confermano la volontà del maestro Chailly di indagare sulle versioni originali delle opere di Puccini, come già fatto con Madama Butterfly, ma anche con La fanciulla del West e Manon Lescaut.

Alla bacchetta di Chailly, coadiuvato da una Orchestra e da un Coro, istruito magistralmente da Bruno Casoni, come sempre magnifici, va poi riconosciuto il merito di regalare una concertazione che non cerca effetti teatrali plateali, né si abbandona, come spesso capita di sentire, a ritmi musicali serrati, utili a mettere in evidenza il clima poliziesco che avvolge l’intero secondo atto, carico di una tensione interna che si fa qui più meditata che esibita, attraverso la ricerca di tempi dilatati e di un suono denso e carico di sottintesi espressivi che illuminano i diversi strati sonori e li fanno convergere, con un controllatissimo rigore formale, verso un passo esecutivo a macchie scure e dense, sinfonicamente accentuato da pennellate decadentistiche mahleriane. Un tratto interpretativo che non concede mai spazio ad un puccinismo compiaciuto ed invece risolve musicalmente l’opera rendendola cornice ideale per uno spettacolo che Davide Livermore realizza, con il suo team (scene di Giò Forma, costumi di Gianluca Falaschi, luci di Antonio Castro e video di D-Wok), nel segno della monumentalità visiva più sontuosa, ma anche cupa e drammatica. Il primo atto ha un non so che di ronconiano o, se volete, di cinematograficamente voluto nell’immaginare l’azione che non inizia in Sant’Andrea della Valle, bensì all’esterno della Chiesa, con l’arrivo di Angelotti. Poi l’azione si sposta subito all’interno, dove è tutto uno scorrere di elementi scenici che componendosi e scomponendosi, o ruotando su se stessi, svelano la cappella dell’Attavanti e i diversi ambienti, dove le tele che mostrano immagini sacre sono proiettate attraverso l’utilizzo di proiezioni cangianti. Si arriva, in questo turbinio di mutazioni di scena, ad un Te Deum di grande effetto, sfarzoso fino all’eccesso nella processione e nell’esternazione liturgica esibita senza risparmio di mezzi e simboli, dove l’utilizzo dei ponti mobili permette alla scena di sollevarsi per lasciare, sulle note finali, Scarpia solo al di sotto del rito sacro che sta per svolgersi al massimo della pompa. Il tutto appare, nel suo movimento continuo, eccessivamente macchinoso, eppure indubbiamente sontuoso oltre che attento nel cogliere in presa diretta l’incalzante susseguirsi degli eventi. Anche nel secondo atto, nella stanza di Palazzo Farnese, il discorso registico “cinematografico” voluto da Livermore risulta scenograficamente evidente ma più composto, con il tableau vivant che sovrasta la stanza dove avviene lo scontro fra Scarpia e Tosca e il pavimento che nuovamente si solleva per mostrare la stanza dove viene torturato Cavaradossi. Di grande presa visiva appare poi la cruenta uccisione di Scarpia, che Livermore realizza con una forza addirittura dirompente, complice il temperamento dei due interpreti, con la Tosca/Hernandez che accoltella più volte il suo persecutore, Scarpia/Salsi, e poi lo finisce strangolandolo. Sorprese anche per la scena finale, con la porzione di Castel Sant’Angelo che pare la grande ala di un Angelo e, grazie all’utilizzo delle proiezioni, svela le forme architettoniche del luogo stesso mentre sul fondale scorre un cielo carico di nubi scure. C’è un finale shock, teatralissimo, che vede Tosca elevarsi in cielo con raggi di luce invece che precipitare nel vuoto; non un’assunzione, come potrebbe sembrare in un primo momento, ma un grido liberatorio che sigla il trionfo della donna che ha fatto di tutto per salvare il proprio amato e che, pur nel gesto estremo del suicidio, viene accolta in una dimensione di alterità che ne sigla il trionfo, di libertà e di libero arbitrio su chi l’ha vessata costringendola a scelte estreme. Livermore è sempre alla ricerca dell’effetto ma lavora sui personaggi meravigliosamente e sa bene come, coniugando tradizione ed innovazione, si possa colpire nel segno piacendo al pubblico; vincenti, come si è accennato, i finali d’atto, ma efficacissimo è anche l’ingresso di Scarpia, avvolto in un alone di luce accecante, di impatto davvero dirompente. C’è poi quel senso di claustrofobica tensione che, in accordo perfetto con la direzione di Chailly, lo spettacolo realizza con scene e costumi che richiamano, nelle tinte scure e ferrigne e nelle spruzzate di colore degli abiti, il clima giusto per l’opera.

La compagnia di canto schiera un terzetto di protagonisti d’eccezione. Tosca, nel pensiero di Livermore, non è la solita prima donna che entra in scena e attira su di sé le attenzioni in virtù del fascino della diva, ma accentua la componente della gelosia corrosiva che la attanaglia rendendola meno passionale del solito. Già Anna Netrekbo aveva assecondato questa visione, come ha saputo ben fare anche Saioa Hernández, prevista per le recite di gennaio e che, dalla rappresentazione del 19 dicembre, della quale riferiamo, appare una Tosca più sospettosa che scontatamente appassionata. Il personaggio evolve nel secondo atto, dove il temperamento della Hernández ha modo di esprimersi al meglio. La voce è sontuosa, ampia e di colore brunito, con un vibrato controllatissimo e sonorità di petto rigogliose di suono, ma anche svettante e solida in acuto in maniera quasi sfrontata. Il “Vissi d’arte” è assai ben cantato, anche con un bel legato, intenso ed insieme emotivamente eloquente, seppur contenuto nelle sfumature. Nel confronto con Scarpia, nella scena dell’omicidio, come in quella del suicidio, sfodera la grinta necessaria, senza però mai eccedere; non come ci si aspetterebbe da una diva, bensì da una donna che lotta per difendere con tutte le sue forze il suo amato trovando il giusto equilibrio fra il coraggio e la fragilità tutta femminile che la rende più intimamente sincera e umana. A conti fatti, quindi, una solidissima protagonista, per di più capace di emergere in un canto di conversazione che illumina il significato della parola con il rilievo espressivo che le compete, sposandosi alla ragguardevole forza centrifuga di una voce di sicuro impatto e peso specifico drammatico. Alla Scala il soprano madrileno, che è cantante di indubbio livello e che l’anno passato aveva aperto la stagione come Odabella in Attila di Verdi, si riascolterà nel 2020 in altri due importanti appuntamenti: Un ballo in maschera di Verdi e La Gioconda di Ponchielli.

Francesco Meli è un Cavaradossi di altissimo profilo, attento alla cura del fraseggio, dell’accento, delle sfumature e di un bel cantare che si ammira dalla prima all’ultima nota per l’arte mostrata nel dipingere la linea vocale di mille colori e sfumature, anche in virtù della bellezza e della luminosità schiettamente tenorile del timbro, di fattura autenticamente italiana, mai compiaciuta perché si impone per lo stile sorvegliato e musicalissimo. Insomma, un gran Cavaradossi, risolto con sensibilità in virtù di un tenorismo mai esibito con foga appassionata o con sentimentalismo posticcio. Si avverte solo qualche lieve tensione in acuto quando il canto si allarga e richiederebbe forse più espansione e squillo; non dimentichiamo che per lui la linea di canto pucciniana è una conquista che va cucita addosso alla sua vocalità, con la prudenza e l’intelligenza qui ampiamente dimostrate.

Anche Luca Salsi si segnala per il bel rilievo vocale, che nel primo atto sfoga bene apparendo uno Scarpia altero e cupo, un po’ meno nel secondo, dove vocalmente è sì sempre presente a se stesso, ma interpretativamente risulta poco sottile e subdolo, poco insinuante e mellifluo. Ma tant’è; resta comunque un cantante di valore che in questo repertorio ed in quello verista, talvolta assai più che in Verdi, trova il suo terreno d’elezione, mostrandosi sorvegliato e controllato nell’emissione.

Ruoli di contorno davvero ben scelti, con il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi, impaurito e meschino, mai macchiettistico, davvero un cameo interpretativo da incorniciare e da prendere a modello, così come perfetto è lo Spoletta di Carlo Bosi, un veterano di questo ruolo. Poi ancora, Carlo Cigni, Angelotti, Giulio Mastrototaro, Sciarrone, Ernesto Panariello, Un carceriere e Gianluigi Sartori, un pastore, tutti bravissimi.

Foto Brescia e Amisano.

Nuove foto con protagonista Saioa Hernández:

                                                                     

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