Gran Bretagna: Brexit alle porte

Brexit doveva essere e Brexit sarà. A questo punto più nessun dubbio, poiché Boris Johnson – premier conservatore in carica, nonché acceso sostenitore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea – ha stravinto le elezioni. Un successo al di là delle aspettative con i conservatori al 44 per cento dei voti e la conquista di 365 seggi sui 650 totali della Camera dei Comuni. Trentanove seggi in più della maggioranza assoluta: un esito appena al di sotto dell’exploit registrato nel 1987 da Margaret Thatcher.

Un risultato che dovrebbe permettere a Johnson di muoversi a suo piacimento. Meglio usare il condizionale perché non sempre le maggioranze tanto ampie si rivelano facili da gestire. Ne sa qualcosa Silvio Berlusconi che dopo le elezioni del 2008 si trovò a disporre di numeri quasi simili ma dovette poi subire la scissione di Futuro e Libertà di Gianfranco Fini. Certo la Gran Bretagna non è l’Italia e poi la vittoria è troppo fresca perché qualcuno, tra i pochi conservatori europeisti presenti in Parlamento, possa pensare di guastarla.

Dall’altro lato del tavolo, i laburisti lamentano invece una delle loro più dure sconfitte: appena 209 parlamentari dopo una campagna elettorale del tutto sfasata. Il leader del partito Jeremy Corbyn aveva spostato la barra tutta a sinistra, prospettando niente meno che un vasto programma di nazionalizzazioni in svariati settori, dimenticando che il liberismo avrà pure fallito ma che le vecchie ricette stataliste non scaldano più i cuori. Una campagna elettorale quella laburista dove non si è toccato il solo tema che veramente interessava gli elettori, ovvero la Brexit. E infatti una consistente fetta degli elettori laburisti, a favore dell’uscita dall’Unione, ha finito per votare conservatore. Storici feudi di sinistra, come la Cumbria e la cintura industriale del nord dell’Inghilterra, sono così passati a destra. La classe operaia spaventata dalla globalizzazione ha voltato le spalle all’Europa ritenendola la causa di tutti i suoi mali. E in effetti, in questa tornata gli europeisti non sono mai stati in partita, come mostra il crollo liberale (11 seggi) con la leader del partito, Jos Swinson, battuta nel proprio collegio ed estromessa dal Parlamento.

Altra musica in Scozia ed Irlanda del Nord, dove sono in pochi a sostenere la marea conservatrice ed antieuropea. In entrambe le regioni del Regno Unito vincono i nazionalisti favorevoli all’Unione e adesso in Scozia si profila, annunciata già dalla leader nazionalista Nicola Sturgeon, la richiesta di un nuovo referendum, non sulla Brexit ma sull’indipendenza. Nel 2014 i fautori dell’unità britannica vinsero abbastanza agevolmente ma oggi tutto pare cambiato e a Glasgow e dintorni soffia un forte vento antinglese. La Brexit, insomma, rischia, dopo oltre trecento anni, di spezzare in due l’isola, tra una Scozia risoluta a restare nell’Unione e un’Inghilterrra decisa ad andarsene.

Il prossimo anno sarà dunque decisivo, con Johnson che, forte dell’indubbio mandato ricevuto, intenzionato a concludere la Brexit entro il 31 gennaio per poi stipulare una nuova intesa commerciale con l’Unione entro il dicembre 2020. Per intanto nei prossimi giorni formerà il suo nuovo governo ed entro Natale giungerà in Parlamento il testo dell’accordo per l’uscita dell’Unione. Sul voto finale, sinora mancato sia a Theresa May sia allo stesso Johnson, questa volta non dovrebbero esservi sorprese,. Al massimo qualche defezione tra i conservatori pro Europa, non certo però in grado di ribaltare il risultato. Tra breve la Gran Bretagna uscirà dall’Unione e il suo sguardo pare ormai puntato verso gli Stati Uniti, per un’intesa anglo-americana nel segno della comunanza di lingua e cultura. La Manica diventerà più larga e l’Atlantico più stretto: una pagina di storia ancora tutta da scrivere.

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