Gran Bretagna: un voto spartiacque

Mancano tre giorni al voto in Gran Bretagna in quelle che sono probabilmente le elezioni più importanti della recente storia del Paese. Da decenni eravamo abituati all’alternanza tra conservatori e laburisti, con politiche anche parecchio diverse ma senza nessuna scelta di campo. Stavolta è invece diverso. Quella del prossimo 12 dicembre è infatti una tornata elettorale che potrebbe segnare il definitivo compimento della Brexit, a conclusione di un percorso iniziato con il referendum del giugno 2016 che vide prevalere una maggioranza a favore dell’abbandono dell’Unione europea. Dal voto potrebbe però scaturire un’opzione diversa: il riavvolgimento del nastro e una nuova consultazione popolare per decidere il da farsi. Due scenari opposti e del tutto possibili, anche se l’opzione Brexit sembra ancora preminente.

La sola cosa di cui si può essere certi e che oggi in Gran Bretagna manca qualsiasi certezza e che da tre anni a questa parte vi regna una confusione mai vista. Per adesso, l’uscita dall’Unione per adesso si è rivelata un percorso ad ostacoli: non sono bastati due anni di trattative per giungere ad un risultato conclusivo. Quelle attuali sono le seconde elezioni anticipate dopo il referendum. Le prime furono vinte dai conservatori di Theresa May, che aveva appena ereditato il governo dal dimissionario David Cameron, scottato da una Brexit che come un apprendista stregone aveva contribuito ad evocare senza saper poi bene come gestirla. I progetti della May di condurre in porto l’uscita dall’Unione si sono però rivelati infruttuosi, con una sequela di voti contrari da parte del Parlamento. Un’impotenza nel convincere i deputati del suo stesso partito, che ha portato alle sue dimissioni e al cambio della guardia a Downing street con l’arrivo di Boris Johnson, conservatore anch’egli ma dell’ala sovranista.

Eppure neanche il decisionista e vulcanico ex sindaco di Londra è riuscito a mettere in riga i suoi parlamentari ed ecco allora un nuovo ritorno alle urne. Lo scioglimento anticipato, nelle intenzioni del premier, dovrebbe proprio servire ad ottenere una forte maggioranza pro Brexit. In realtà – ed è questo il vero problema dell’attuale fase politica britannica – i due storici partiti, conservatori e laburisti, sono entrambi spaccati in due tra favorevoli e contrari all’Unione europea. I sondaggi, sempre da prendere con la dovuta cautela, indicano una probabile vittoria conservatrice con la conferma di Johnson come premier. Per non disperdere i consensi per la Brexit, Nigel Farage non ha candidato esponenti del suo Brexit party nei collegi dei conservatori anti Europa. Resta comunque il fatto i conservatori europeisti, a mali estremi, siano pronti persino ad unirsi ai liberali (pro Europa ad oltranza) e ai laburisti (per i due terzi favorevoli all’Unione) per chiedere un nuovo referendum.

D’altronde qualora vincessero i laburisti non ci sarebbe, in ogni caso, maggior chiarezza. Il leader del partito, Jeremy Corbyn è infatti piuttosto tiepido verso l’Unione, sconfessando quella tradizione europeista che dai tempi di Harold Wilson, anni Sessanta, fino a Tony Blair da sempre caratterizza il Labour. Restano contrari alla Brexit i nazionalisti scozzesi ed irlandesi, temendo un isolazionismo ad egemonia inglese nello stretto recinto della Gran Bretagna.

In buona sostanza, siamo di fronte ad elezioni al tempo stesso decisive ed incerte. Un vero e proprio spartiacque come lo furono in Italia le elezioni del 1948 quando decidemmo in maniera definitiva la nostra collocazione internazionale. Oggi la Gran Bretagna è anch’essa chiamata a scegliere dove collocarsi: un voto che potrebbe cambiare i destini dell’isola per i prossimi decenni.

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