Ilva: quando manca una politica industriale

Non disturbare il can che dorme. Se si fosse attenuto alla saggezza contenuta in questo vecchio proverbio, la maggioranza giallorossa, sempre più a trazione pentastellata, non avrebbe rimosso lo scudo penale alla Arcelor-Mittal e questa non avrebbe reagito chiedendo la rescissione del contratto. Invece si è offetto un comodo alibi ad una multinazionale che di tutto aveva bisogno, tranne della necessità di ricevere una scusa a buon mercato per giustificare la propria volontà di abbandonare lo stabilimento di Taranto a causa della riduzione dei propri margini di profitto, in seguito alla flessione del mercato mondiale dell’acciaio.

Adesso la frittata è fatta e, come mostra quello che sta succedendo in queste settimane, porvi rimedio non sarà affatto facile. Rimettere lo scudo penale – ammesso di convincere il gruppo di pentastellati riottosi a quest’evenienza – potrebbe non essere sufficiente. Infatti Mittal sta parlando di esuberi di personale ed è evidente che stia cercando tutti i pretesti per sfilarsi dagli accordi. Per fronteggiare l’emergenza si pensa ad un ingresso dello Stato nel capitale dell’Ilva, tramite un intervento della Cassa depositi e prestiti. Qualcuno ha anche accennato ad una nazionalizzazione tout court, anche se ad impedirlo potrebbero esservi alcuni vincoli europei.

Poi, tanto per non farci mancare nulla, vi è anche chi propende per la chiusura del sito produttivo, trasformando l’area in un enorme area verde, cancellando, dopo un’opportuna bonifica, ogni traccia dell’acciaieria. L’ex ministra grillina Barbara Lezzi immagina addirittura di sostituire la produzione dell’acciaio con un’immensa coltivazione di molluschi nello specchio di mare antistante. Come al solito vediamo frullare le ipotesi più strampalate.

D’altronde metà dell’attuale maggioranza di governo, ovvero la componente pentastellata, non ha mai fatto mistero di puntare alla cosiddetta decrescita felice. E allora niente acciaio, niente infrastrutture, niente ricerche sul nucleare di nuova generazione, in supporto alle energie rinnovabili, soggette alla variabilità del sole e del vento. Solo il deserto produttivo, in un’Italia deindustrializzata. E allora come uscire da questa situazione?

C’è intanto da sperare che anche nel variegato mondo pentastellato prevalga, come peraltro spesso è accaduto, un minimo di realismo e si disegni, finalmente, un percorso sensato per l’acciaio italiano. Perché, a dispetto dell’economia immateriale, di acciaio ce n’è ancora parecchio bisogno: dall’automobile alla cantieristica navale, alle costruzioni, passando ovviamente per l’intero comparto della meccanica. Settori di punta, pensiamo alle macchine utensili, dove l’Italia è da sempre molto competitiva e tale deve rimanere.

Di certo, più in generale, il nostro Paese deve riavviare la sua politica industriale, in attesa che ne ve sia una, sempre più necessaria, a livello europeo. Fermandoci, per ora, al solo ambito nazionale, perché questa è la dimensione attuale, occorre che nei comparti strategici e tra questi oltre all’acciaio, si annoverano l’automobile, le energie rinnovabili e l’aerospaziale, lo Stato riprenda un preciso ruolo di orientamento degli investimenti privati. Non si tratta di sostituirsi al mercato, poiché questo rimane la sede migliore per utilizzare le risorse produttive, ma di fargli da supporto, tra investimenti pubblici diretti ed adeguate agevolazioni fiscali, fornendo un disegno di lungo periodo che unisca gli aspetti ecologico-ambientali a quelli della crescita economica. Perché la cosa più assurda è vedere che nell’Italia del XXI secolo si debba ancora scegliere tra lavoro e salute, tra ambiente e sviluppo, senza una visione di insieme che unisca tutti questi aspetti. Meglio poi, e con certo maggior efficacia, se si giungerà a farlo su scala europea, quella che più garantisce una vera possibilità di competere con i giganti del pianeta.

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