Centocinquanta anni di Unità

Centocinquanta anni fa, il 17 marzo 1861 si compiva l’unità d’Italia e veniva così a concludersi – pur se alla completa unificazione mancavano ancora il Veneto, Roma, la Venezia Giulia e il Trentino – la grande stagione del Risorgimento e prendeva inizio la nostra vicenda nazionale.

L’Italia del 1861 era un Paese di 22 milioni di abitanti con un analfabetismo che toccava quasi l’80% della popolazione. Un Paese privo di materie prime la cui economia si basava in larga parte su un’agricoltura di mero sostentamento e gravata al sud da vasti latifondi improduttivi. Le industrie erano pressoché inesistenti e quelle poche concentrate quasi esclusivamente al nord. Scarse le vie di comunicazione, con una rete ferroviaria poco diffusa e strade non adeguate alle crescenti esigenze commerciali.

Da allora è stata fatta molta strada se oggi, pur con tutti i nostri limiti, siamo divenuti la Settima potenza industriale del mondo. Celebrare i nostri 150 anni di Unità con una giornata di Festa nazionale significa dare la giusta e doverosa importanza a questo momento. Significa altresì provare a riflettere su un lungo cammino che ha condotto l’Italia a diventare una grande e moderna democrazia.

Uno dei fili conduttori attraverso cui leggere la nostra storia è proprio quello di soffermarsi sulla difficile, e spesso contrastata, ascesa delle masse popolari nel nuovo Stato unitario. Non dimentichiamo infatti che l’intero Risorgimento era stato opera di una minoranza: una ristretta cerchia di borghesia settentrionale e qualche circolo intellettuale del Mezzogiorno. Vi era un sistema elettorale rigidamente fondato sul censo, in cui aveva diritto al voto meno del 2% della popolazione. La stragrande maggioranza degli italiani, in prevalenza contadini, restava completamente esclusa dalla vita pubblica.

Ci vollero quasi sessanta anni per giungere (1919) al suffragio universale, limitato ai soli uomini Per le donne si sarebbe dovuto attendere il 1946, nella nuova Italia democratica.

La Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, pose definitivamente le basi per la realizzazione di una compiuta democrazia, nella quale tutti i cittadini, indipendentemente dalla propria condizione personale potessero riconoscersi. A cominciare dall’art. 1 che fa del lavoro il valore fondante delle nuove istituzioni repubblicane. L’idea cioè che tutto procede dal lavoro, inteso come merito e sforzo individuale e non, come avveniva in passato, dal privilegio.

Altrettanto decisivo l’art. 3, che proclama l’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale, impegnando la Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

O ancora, tanto per evidenziare alcuni dei principali fondamenti sociali della nostra Costituzione, l’art. 36 sul diritto del lavoratore ad una retribuzione, “… in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”: una leva che dovrebbe essere usata per sancire per legge un salario minimo al di sotto del quale non si possa mai inderogabilmente scendere in tutto il territorio nazionale. L’art. 41 sull’iniziativa economica privata che è ovviamente libera purché non si svolga “….in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. L’art. 53 sulla capacità contributiva e sulla progressività del sistema tributario nel senso di un’irrinunciabile equità fiscale.

L’ordinamento economico e sociale disegnato dalla nostra Carta costituzionale si basa dunque sulla centralità della persona nel mondo del lavoro e sulla tutela delle classi più deboli come mai era avvenuto in passato. Una tutela ed un’ascesa che oggi paiono quasi venir rimesse in discussione tra precarizzazione del mondo del lavoro e striscianti privatizzazioni dei beni pubblici (acqua, scuola, sanità). E tutto ciò avviene proprio mentre ci si trova alle prese con questioni epocali, dalla globalizzazione (che accentua la competizione economica) all’immigrazione (che pone il tema della convivenza tra culture diverse) sino alla tutela delle risorse naturali (per preservare il nostro futuro). Questioni che non possono esser adeguatamente affrontate nella sola dimensione nazionale.

Il nostro complessivo sviluppo economico, sociale e civile oggi è più che mai connesso all’integrazione europea. Se alcuni grandi problemi irrisolti contraddistinguono ancora il panorama dell’Italia odierna, c’è da pensare che proprio l’essere parte dell’Unione Europea e della moneta comune possa rappresentare il miglior viatico per l’avvenire del nostro Paese. Un cammino quello dell’integrazione dell’Europa che, per molti versi, rammenta il percorso del nostro Risorgimento per l’unificazione della nostra penisola.

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