Renzi e il Pd

Matteo Renzi più di molti altri esponenti politici pare non conoscere le mezze misure. Nella sua vita politica lo abbiamo dunque visto fare le mosse più azzeccate e compiere gli errori più marchiani. Tra le prime sicuramente l’aver proposto Sergio Mattarella per il Quirinale oppure, ed è cosa recentissima, l’esser stato capace di metter da parte le pregiudiziali verso i Cinquestelle pur di far nascere un governo giallo-rosso e bloccare l’ascesa estremista della Lega. Tra i secondi la clamorosa personalizzazione del referendum costitituzionale che gli è costata una sonora batosta politica.

Difficile, almeno per ora, inquadrare la sua ultima mossa, ovvero l’uscita dal Pd e la nascita di Italia Viva, come nuova formazione centrista (che guarda a sinistra come la Dc?). Ci vuole infatti tempo per valutare l’impatto di una manovra del genere sugli elettori e sulla classe dirigente. Di certo i precedenti di chi ha lasciato il proprio partito non sembrano giocare a favore di questa scelta. Basti pensare al magro bottino di Liberi e uguali, che pure allinea due grossi calibri come Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, oppure a Futuro e libertà di Gianfranco Fini, ormai quasi dimenticata dagli elettori.

L’abbandono di un partito è, a ben pensarci, qualcosa di insensato. Si poteva immaginare Giulio Andreotti, Giorgio Almirante o Enrico Berlinguer uscire dai rispettivi partiti? No, perchè erano la casa nella quale maturava il proprio impegno civile ed umano, prima ancora che politico. E non erano solo i leader a pensarla così ma anche coloro che si trovavano eternamente in minoranza, lontani dalla leadership. Basti pensare a Carlo Donat Cattin, a Pino Rauti o ad Armando Cossutta. Si faceva una dura battaglia interna, si cercava di guadagnar consensi per il congresso e, soprattutto, si faceva politica. Oggi invece basta un nonnulla ed ecco arrivare le scissioni che sempre meno hanno a che fare con quelle indubitabili ragioni di portata storica come nel 1921, con lo scontro tra riformisti e massimalisti, che portò alla nascita del Partito comunista, o nel 1947, quando nacque il Psdi di Giuseppe Saragat, per dare all’Italia una socialdemocrazia lontana dal totalitarismo marxista. Adesso emergono mere motivazioni di leadership e in tal senso quella di Renzi è la più emblematica.

Sappiamo fin troppo bene quanto l’ex premier sia portatore di una visione personalistica della politica che lo porta, sempre e comunque, a voler essere il capo e a non accettare di far parte di una normale classe dirigente. Una pretesa di essere l’uomo solo al comando che non poteva che entrare fatalmente in collisione con le culture socialcomunista e democristiana, entrambe fondanti del Pd ed entrambe del tutto avverse a qualsiasi impostazione verticistica. Inevitabile quindi per Renzi la separazione e l’inizio di una nuova avventura.

Detto tutto questo, ora è bene volgere lo sguardo al Pd, ineludibile realtà dell’odierna politica italiana e che certo, come tutti i grandi partiti, saprà sopravvivere a qualsiasi scissione. Anche perchè alla sua base c’è un progetto formidabile: superare gli steccati tra sinistra ex marxista (figlia del vecchio Pci) e sinistra cattolica (che era l’anima popolare della Dc), in nome di un grande riformismo capace di ancorare l’Italia all’Europa e di vincere la duplice sfida di un’incisiva equità sociale e un realistico sviluppo sostenibile. Un progetto che passa ben al di là delle pur legittime ambizioni di questo o quell’esponente politico perchè parla all’intera società italiana.

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