Bruciare il futuro

Ormai è noto che il pianeta si riscalda e che questo aumento di temperatura rischia di provocare mutamenti climatici devastanti. Ormai è noto che questo surriscaldamento è dovuto all’effetto serra provocato da un eccesso di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera. Ed è anche noto che dovremmo ridurre drasticamente le emissioni di CO2, anzi dovremmo fare in modo di riassorbirne il più possibile, per sottrarla all’atmosfera e mitigare così l’effetto serra e gli squilibri che comporta.

Tutto ciò è ampiamente noto, così come sappiamo benissimo che il sistema più efficiente per catturare anidride carbonica è dare più spazio a chi lo fa per sua natura da milioni di anni: gli alberi. Invece, facciamo l’esatto contrario. Gli alberi li mandiamo in fumo, contribuendo così a sprigionare ulteriori quantità di CO2, quella che le piante avevano catturato e fissato al loro interno durante tutta la loro esistenza, e che viene nuovamente dispersa nel momento in cui vanno a fuoco.

Qualche settimana fa, ha avuto grande risalto la notizia che ampie zone dell’Amazzonia, la più grande riserva di biodiversità del mondo, stavano bruciando. In contemporanea, anche se con meno risalto mediatico, le fiamme stavano divorando anche parte delle foreste tropicali africane, mentre poco tempo prima era toccato a quelle siberiane. In questi giorni i roghi divampano in varie isole dell’arcipelago indonesiano, in particolare nel Borneo, quelle foreste che erano entrate nel nostro immaginario perché teatro delle avventure di Sandokan, oggi rifugio (precario) per gli ultimi oranghi e altre specie in pericolo.

Tutti questi disastri ecologici sono opera dell’uomo, a volte per incuria, più spesso per interesse. La gran parte degli incendi sono infatti di natura dolosa, appiccati per distruggere deliberatamente la foresta e fare spazio a terreni adibiti all’allevamento di animali o alle monocolture intensive. In particolare, l’Amazzonia sta rapidamente andando in fumo per essere sostituita da allevamenti di bovini destinati a diventare carne e cuoio per i mercati occidentali, mentre in Indonesia si brucia la foresta per estendere le piantagioni che producono olio di palma, ingrediente a basso costo utilizzato in migliaia di preparati, da quelli alimentari a quelli cosmetici, in sostituzione di altri oli più sani per la salute nostra e dell’ambiente, ma più costosi per le aziende che dovrebbero utilizzarli.

Così, per risparmiare sui costi o per incrementare produzioni e ricavi, stiamo letteralmente bruciando il nostro futuro, come se non ci fosse un domani. Che in effetti non ci sarà, continuando di questo passo. E la responsabilità non è solo in capo al contadino indonesiano o al presidente del Brasile Bolsonaro che, con le sue dichiarazioni, ha di fatto sdoganato l’aggressione nei confronti dell’Amazzonia, vista come una risorsa da depredare per aumentare il Pil dello Stato, atteggiamento che ha portato a un aumento del 196% degli incendi nella regione rispetto allo scorso anno.

No, le responsabilità sono più ampie, globali, coinvolgono aziende e mercati occidentali, ovvero i destinatari delle esportazioni di ciò che viene prodotto dopo aver distrutto la foresta. Per questo è necessaria una maggiore consapevolezza dei cittadini, in modo che ognuno possa fare le proprie scelte responsabilmente e a ragion veduta.

Oggi, in molti simpatizzano col movimento ecologista che ha trovato nuova linfa grazie al coinvolgimento di migliaia di giovani in tutto il mondo, ma aderire alle manifestazioni o sostenere i ragazzi in questa loro presa di coscienza non è sufficiente, se non si adottano comportamenti e stili di vita conseguenti. Ridurre i consumi di carne sarebbe senz’altro un primo passo, anche senza bisogno di diventare necessariamente vegetariani o addirittura vegani.

Ma soprattutto, occorre una chiara scelta di campo a livello sociale e politico. Per capirci, è decisamente ipocrita lanciare proclami ecologisti e poi tifare perché vengano siglati accordi di libero scambio col Mercosur, l’unione economica dei Paesi sudamericani, per “creare sviluppo”. In realtà, sono proprio accordi di quel tipo che, abbattendo dazi e barriere commerciali, aumentano la quantità degli scambi e provocano un continuo aumento di domanda e offerta, dunque la necessità di produrre di più, rubando spazio alla foresta e agli spazi naturali in genere.

È bene essere coscienti che questi continui proclami a favore della “crescita”, dello “sviluppo”, dell’implementazione degli scambi commerciali, non sono compatibili con una seria azione di salvaguardia del nostro pianeta. Oggi siamo ormai a un bivio cruciale: continuare col paradigma di sviluppo attuale, i cui limiti e disastri dovrebbero essere ormai evidenti a tutti, oppure deciderci a invertire la rotta e adottare un modello più sostenibile, dove la parola “crescita” venga bandita e sostituita con “progresso”.

Non si tratta di una sottigliezza semantica, ma della presa di coscienza che lo sviluppo economico deve smettere di essere il fine dei nostri sforzi e tornare a essere un semplice mezzo per ottenere un fine più alto, fatto di giustizia sociale, benessere delle persone e salvaguardia della natura. L’economia al servizio dell’uomo e dell’ambiente, non viceversa come avviene oggi. Dalla direzione che decideremo di imboccare dipende la nostra sopravvivenza. E non è un semplice modo di dire.

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