Mariana Mazzucato: il valore di tutto

Analizzare i meccanismi del liberismo economico e le modalità con cui essi sono stati assunti come dogmi indiscutibili, questo tenta di fare l’economista Mariana Mazzucato, nel suo ultimo libro “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale” (editore Laterza). L’autrice, docente di economia all’Università del Sussex in Gran Bretagna, spiega che si è dato per scontato il perfetto funzionamento del mercato e si è affidato alle sue presunti leggi l’andamento complessivo dell’economia, senza alcun correttivo.

Questo avrebbe dovuto garantire la miglior allocazione possibile delle risorse. In realtà così non è, in quanto il mercato perfetto non esiste e in assenza di regole ne scaturisce un sistema in cui la ricchezza tende a concentrarsi sempre più in poche mani. Aumentano a dismisura le disuguaglianze sociali e, alla fine, ne esce stritolata persino la stessa economia reale. Abbiamo assistito in questi ultimi due decenni ad un vero e proprio mutamento genetico della finanza che, da supporto volto a fornire le risorse per gli investimenti attraverso il risparmio, è divenuto uno strumento a sé stante, sganciato dalla crescita economica, dalla creazione di posti di lavoro e, in definitiva, dal benessere della collettività.

Questo fenomeno è potuto avvenire perché i gruppi economicamente dominanti (banchieri, grandi azionisti, ecc..) sono riusciti a generalizzare la convinzione che tutto quanto non sottoposto al profitto fosse negativo. La cultura economica e il sistema mediatico hanno sostenuto l’idea che il libero mercato dovesse prevalere su tutto. Si sono così demonizzate la spesa pubblica e le protezioni sociali, ritenute inutili ed improduttive, quasi per definizione. Un’operazione che i potentati economici hanno potuto condurre grazie ad una politica succube che ha permesso di allargare a dismisura gli spazi di profitto, anche in aree come la sanità o la previdenza, che per loro natura hanno vocazione ad essere pubbliche.

Soprattutto, e questo è il punto decisivo, si è fatta confusione sulla creazione di valore, ritenendo che lo fosse anche la semplice estrazione di valore prodotto da altri come, per molti versi, è l’attività finanziaria. Questa è stata eccessivamente premiata rispetto alle normali attività industriali, anche per la sua attitudine a ricavare un profitto speculativo di breve termine. Il tutto a spese di una sostenibilità economica di più lungo periodo.

Anche la suddivisione del reddito ne ha risentito, fornendo giustificazione ai compensi stratosferici di alcuni top manager, mentre, nel contempo, si impoveriva la classe media, quella che da sempre viveva del proprio lavoro, subordinato o autonomo che fosse. Questo ceto medio, tradizionale colonna vertebrale delle nostre democrazie è uscito con le ossa rotte e proprio da questo tracollo sociale derivano le paure e le proteste per una globalizzazione non governata. Per uscire da questo stato di cose, l’autrice ritiene che occorra riconsiderare la nozione di valore, restituendone anche ai beni pubblici messi a disposizione della collettività. Un ripensamento, dunque totale, di quello che sono stati gli ultimi tre decenni di ultraliberismo.

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