Marchionne-Fiom, manca il Governo

Sergio Marchionne pone un problema estremamente serio: la competitività internazionale della produzione dell’auto. Per sopravvivere nel difficile mercato dell’automobile occorre produrre a certe condizioni e tra queste vi è evidentemente la possibilità di utilizzare a pieno regime gli impianti con la massima flessibilità organizzativa.

Se su questo punto l’Amministratore delegato della Fiat ha certamente ragione, va però censurato il metodo scelto per conseguire la tanto auspicata governance degli stabilimenti. L’idea che si possano impostare proficue e durature relazioni industriali senza la Fiom che è il principale sindacato metalmeccanico è semplicemente velleitaria. Assurda poi la tesi per cui un sindacato possa esser presente in fabbrica, e godere dei relativi diritti, solo se firma gli accordi contrattuali. In realtà sono gli iscritti, ovvero i lavoratori che vi aderiscono, a dar forza e rappresentatività ad una sigla sindacale, non le intese con la controparte. Queste semmai sono soltanto la logica conseguenza del primo aspetto.

L’accordo di Mirafiori è sicuramente positivo perchè significa accrescere la produzione fino a 280.000 veicoli l’anno, ossia il doppio di quanto viene costruito oggi. Quello che però colpisce è l’assoluta priorità che viene data a questioni di organizzazione del lavoro (mensa, pause, turni, ecc…) senza che quasi mai si parli di innovazione del prodotto. Tutto gira attorno ad alcune, e probabilmente più gravose, condizioni produttive che i lavoratori dovrebbero accettare senza discutere. Eppure spostare le mensa a fine turno non è cosa da poco per chi si è alzato alle cinque e dovrà attendere sino alle due per la pausa pranzo. Forse ai soloni che mai hanno visto una fabbrica la cosa sembrerà irrilevante, ma così non è. La risposta a queste preoccupazioni è stata quella di procedere a colpi di diktat, con dosi di autoritarismo non disgiunto da qualche polemica caduta di stile (“le auto si producono anche senza la Fiom”), poco in linea con la statura di grande manager internazionale quale è certamente Marchionne.

E’ ovviamente sperabile che al referendum i lavoratori dello stabilimento torinese si pronuncino per il sì all’intesa. Del resto quando viene fatto scegliere tra il pane e i diritti, è naturale che si punti sulla concretezza del primo rispetto alla presunta astrattezza dei secondi. Il punto è che non si dovrebbe mai giungere a scelte tanto secche. Più che scelte queste sono ricatti.

In questa vicenda, a ben vedere, ci sono state troppe forzature. Sarebbe invece stato più logico aprire un tavolo, senza pregiudiziali, con tutti gli attori, ascoltando anche le ragioni della Fiom. Così come sarebbe stato più rispettoso delle norme sul lavoro esistenti nel nostro Paese restare nel solco del contratto nazionale metalmeccanico. Più sensato era infine evitare di mettere in difficoltà Confindustria che, de facto, oggi risulta quasi esautorata dal compito di definire le regole di base che fissano i rapporti di lavoro.

C’è poi da domandarsi se sia normale che un grande gruppo come la Fiat pensi di competere agendo quasi solo sul costo del lavoro e non invece operando sulla qualità del prodotto, sulla ricerca avanzata e sull’innovazione tecnologica.

Esser giunti a questo punto non è comunque solo imputabile alle reciproche rigidità della Fiat e della Fiom. Ben più gravi sono le responsabilità del Governo che in questi mesi si è fatto unicamente notare per il suo assordante silenzio, salvo qualche inopinato commento di Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro così poco super partes al punto da dividere i sindacati in buoni e cattivi.

Intendiamoci, nessuno vuole riesumare lo statalismo di un tempo o i sussidi a pioggia. Però tra l’interventismo vecchio stampo e il vuoto assoluto potrà pur esserci qualche ragionevole via di mezzo. Compito di un Governo, conscio del proprio ruolo, è allestire una seria ed avveduta politica industriale. Una politica che sappia parlare ad imprese e sindacati, alle multinazionali e al mondo del lavoro. Fa bene Marchionne a rifiutare gli aiuti di Stato che poi qualcuno potrebbe rinfacciargli, ma ben diverso sarebbe stato se il Governo avesse parlato di investimenti, di logistica, di infrastrutture, di auto elettrica e di veicoli ibridi, mostrando un reale interesse a che tutto ciò sia realizzato nel nostro Paese. Dando a tutti, alla Fiat come alla Fiom, una prospettiva di lungo periodo per coniugare sviluppo e diritti, perchè la cosa più fuorviante è proprio pensare che i secondi siano di ostacolo al primo.

Obama e Lula, la Merkel e Sarkozy, leader di Paesi diversi e di differente colore politico puntano su una forte politica industriale che tuteli i diritti e favorisca lo sviluppo. Proprio ciò a cui non pensa il nostro Governo, con un presidente del Consiglio sempre in tutt’altre faccende affaccendato.

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