I costi dei cambiamenti climatici

        

Sempre più spesso il nostro Paese viene flagellato da eventi atmosferici estremi. Si allungano i periodi di siccità a cui seguono precipitazioni alluvionali o particolarmente violente, come grandinate dove i chicchi assumono dimensioni ragguardevoli. Aumentano le ondate di calore, come numero, frequenza e temperature massime raggiunte. Crescono mareggiate, alluvioni, trombe d’aria e si registrano perfino fenomeni paragonabili agli uragani tropicali. È l’effetto dei cambiamenti climatici provocati dall’effetto serra, a sua volta causato dall’eccesso di anidride carbonica (CO2) rilasciata in atmosfera dalle attività antropiche.

Questa realtà è ormai palese e visibile a tutti, tranne a quel manipolo di negazionisti che, per cecità o interesse, si ostina a negare l’evidenza. Ma il grosso dell’opinione pubblica si è reso conto, anzi ha dovuto rendersi conto, che il clima è cambiato. In peggio.

Tuttavia, si stenta ancora a capire che occorre un cambiamento radicale nei nostri stili di vita e di consumo per evitare che la situazione attuale, già piuttosto critica, diventi inevitabilmente catastrofica.  Esperti di varie discipline e climatologi lo hanno detto chiaramente: continuando con l’attuale tendenza socio-economica, andremo ben oltre il riscaldamento medio globale di 1,5° centigradi, indicato dall’Accordo di Parigi come soglia da non superare per evitare guai peggiori. Ma i decisori politici e il sistema produttivo mostrano un’inerzia inaccettabile nell’imboccare la via, ormai imprescindibile, di una maggiore sostenibilità.

Per quanto il tempo stringa e la situazione peggiori visibilmente di anno in anno, c’è una forte resistenza a mettere in discussione l’attuale paradigma economico basato sulle fonti fossili, perché profondamente radicato nel nostro vivere quotidiano e nei nostri schemi mentali, peraltro continuamente influenzati ds coloro che hanno interesse a mantenere inalterato un sistema che garantisce loro guadagni enormi.

Perché purtroppo il problema di fondo è sempre quello: anziché guardare all’interesse generale o alla salvaguardia dell’ambiente, si bada solo al proprio guadagno personale, piccolo o grande che sia. A determinare le scelte, troppo spesso, non è la determinazione a fare la cosa giusta, ma la pulsione di fare (o risparmiare) soldi.

E allora, mettiamola sul piano dei soldi, visto che per moltissimi contano persino più della propria salute, figuriamoci della salute della Terra.

Qualcuno ha cominciato a fare i conti di quanto ci costa – e quanto ci costerà in prospettiva – l’emergenza climatica. E sono saltate fuori cifre da brivido. Attenzione: non si tratta delle “solite” previsioni dei “soliti ambientalisti” che secondo qualcuno esagerano, sono troppo pessimisti e creano allarmismo. 

La stima deriva da un circostanziato rapporto del Carbon Disclosure Project (CDP), Ong di Londra che ogni anno raccoglie dati ambientali da oltre settemila aziende, in particolare dall’analisi di quelli riguardanti  un gruppo di 215 multinazionali, la cui capitalizzazione complessiva è di circa 17 trilioni di dollari,  cioè un volume quasi equivalente al PIL dell’Unione Europea.

Dallo studio emerge che i costi legati al cambiamento climatico potrebbero raggiungere i mille miliardi di dollari già nei prossimi cinque anni, proprio a causa di quegli eventi atmosferici estremi di cui parlavamo all’inizio, legati all’innalzamento delle temperature e all’immissione in atmosfera di ulteriori quantità di gas a effetto serra.

A questo proposito, un’indagine dell’organizzazione ambientalista Green Finance Observatory ha messo sotto accusa il meccanismo di compensazione e riduzione delle emissioni di CO2 basato sul mercato dei crediti di emissione, ovvero la possibilità di continuare a inquinare comprando certificati “verdi” da aziende più virtuose, che li hanno ottenuti grazie alle loro produzioni più eco-sostenibili. Per capirci, è quello che ha fatto FCA (e altre Case automobilistiche) acquistando – a caro prezzo – i certificati verdi in possesso di Tesla, unico costruttore al mondo a produrre esclusivamente auto elettriche, che in fase di utilizzo sono a emissioni zero.

Una parte rilevante dei costi le aziende dovrebbero sostenerla per adeguarsi alle nuove leggi e normative emanate per fronteggiare l’emergenza, un obbligo prevedibile al quale sono giunte colpevolmente impreparate, confidando in una legislazione favorevole a oltranza o ricorrendo a vere e proprie truffe. È il caso – per rimanere su esempi automobilistici –  del famigerato Dieselgate, col quale Volkswagen ha truccato i dati delle emissioni dei propri veicoli diesel, dopo avere portato avanti per anni un’azione di lobby volta a ottenere normative meno restrittive, vista l’impossibilità tecnica di migliorare l’efficienza dei motori a scoppio oltre certi limiti.

C’è poi  il non trascurabile problema degli stranded assets, ovvero la parte di portafoglio aziendale basata su titoli e risorse legati al settore fossile che, essendo ormai in declino, deprezzano sensibilmente la capitalizzazione delle aziende che li detengono. In pratica, la transizione verso un’economia circolare e basata su fonti rinnovabili metterebbe in crisi l’industria fossile, fattore che desta preoccupazioni di ordine politico, economico e sociale, visto il peso del settore in termini di fatturati e occupazione.

Un contrappeso che rischia di frenare una svolta che è invece assolutamente inderogabile, anche a costo di causare perdite a un comparto che per troppo tempo ha accumulato ricchezze a spese dell’equilibrio bioclimatico del Pianeta, tanto da mettere a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana. Un pericolo drammaticamente concreto, evidenziato dal crollo repentino e costante della biodiversità, destinato ad avere gravi ripercussioni anche su una specie apparentemente di successo come la nostra, ma non per questo immune dal collasso degli ecosistemi che gli scienziati registrano ormai ovunque.

A fronte di questi scenari cupi, al limite dell’apocalittico, c’è tuttavia uno spiraglio di luce. Il medesimo studio evidenzia che le opportunità legate alla transizione produttiva potrebbero valere 2.100 miliardi di dollari. oltre il doppio dei costi stimati e circa 7 volte di più degli investimenti ritenuti necessari (311 miliardi) per concretizzare il cambiamento. Questo a fronte della conversione della domanda verso nuove tecnologie meno impattanti, quali la mobilità elettrica, per proseguire con gli esempi nel settore dei trasporti.

Insomma, per concludere, riconvertirsi in senso più ecosostenibile conviene, non solo per l’ambiente e per tutti noi, ma persino dal punto di vista economico, che dovrebbe essere in secondo piano e invece risulta spesso il più determinante. E molti hanno iniziato a capirlo, primi fra tutti i giovani dei Fridays For Future, alfieri di un cambio culturale che comincia a farsi strada. Solo che bisogna fare molto di più di quanto si sta facendo. E molto più in fretta.

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