La speranza dei poveri

La povertà in Italia non arretra e si mantiene a livelli record. Questo è quanto sancisce il rapporto Istat sulla povertà relativo al 2018. Nonostante costituisca uno degli obiettivi dell’agenda Onu per lo sviluppo sostenibile, nonostante sia oggetto di opportuni interventi legislativi, la povertà non si abolisce per decreto. La si può alleviare, ridurre con un ventaglio di interventi di natura economica, politica, culturale. Per fare questo non si deve guardare a questo fenomeno per comparti stagni. I cosiddetti “poveri assoluti” dal punto di vista statistico, che pure costituiscono l’8,4% della popolazione, cinque milioni di persone, non sono che la punta dell’iceberg di un disagio, di un arretramento e impoverimento diffuso che si registra nelle varie sfaccettature della classe media. Oggi non ci si trova più in una condizione in cui una larga maggioranza di cittadini risultano garantiti, e una relativa minoranza no. Se fossimo ancora nella “società opulenta” descritta da Galbraith, anche una cifra cosi elevata di poveri potrebbe essere gestita senza eccessive preoccupazioni. Oggigiorno la situazione risulta ribaltata. È la maggioranza della popolazione che si trova in uno stato di disagio economico e sociale, che alimenta perenni correnti carsiche che sfociano nel fiume della povertà assoluta. Ciò impone, a differenza del passato, che la lotta alla povertà sia svolta contemporaneamente su due piani. Il primo è quello dell’intervento diretto per chi sta peggio. Il secondo per ridurre gli affluenti della povertà dal ceto medio impoverito.

Sul primo tipo di interventi da qualche anno si è focalizzata l’attenzione, più per merito delle organizzazioni della società civile che della politica. La rete di questi organismi, l’Alleanza contro la povertà, ha dato un forte impulso al varo di una misura strutturale di contrasto alla povertà assoluta. Sebbene il “reddito di inclusione” e il cosiddetto “reddito di cittadinanza” siano misure con importanti differenze, va riconosciuto loro la funzione di alleviare la povertà e di avere un effetto di stimolo ai consumi interni, nonché, nell’ottica di un bilancio sociale, di prevenzione di altri tipi di interventi di carattere umanitario, sanitario, giudiziario e di ordine pubblico.

Il problema che si pone non è solo quello di assicurare una razionale applicazione delle misure prescelte, che sarebbe già tanta roba, come si suol dire, viste le lacune nei servizi socio-assistenziali e per l’impiego (nei casi in cui ciò è possibile), ma nel contempo anche quello di attuare politiche generali che non siano più, per utilizzare un aggettivo tanto in voga, generative di ulteriore aumento della povertà, della disuguaglianza, della disoccupazione, della chiusura di posti di lavoro.

Ormai quello delle voci a favore di politiche economiche espansive, di politiche monetarie e fiscali non rovinosamente procicliche ma anticicliche rispetto alla nuova recessione in corso, è un coro innumerevole. La speranza di tutti, dei poveri in primo luogo, è che le autorità competenti a qualsiasi livello istituzionale non rimangano insensibili di fronte alle tante proposte di altissima competenza e di enorme buonsenso che circolano per avviare una nuova, concreta e attuabilissima fase di sviluppo e di coesione sociale. Non dare o azzardare a ritardare le risposte che oggi la situazione sociale ed economica dell’Italia, degli altri Paesi periferici dell’Ue, ma a ben vedere dell’Europa intera, richiede significa lasciare che la Storia trovi, a suo modo, delle soluzioni che non è affatto detto siano le più desiderabili.

Per scongiurarlo i soggetti sociali possono, e anzi devono, anticipare e spronare la politica a essere consapevole che le misure di contrasto della povertà possono risultare efficaci solo se sono inserite all’interno di nuove politiche generali che producano benessere diffuso e non, come purtroppo è avvenuto negli ultimi anni, ulteriori e più gravi disuguaglianze fra i ceti sociali e divergenze fra gli stati.

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