“I masnadieri” in caserma

Nuovo allestimento dell’opera di Verdi alla Scala con un ottimo cast e la direzione di Michele Mariotti. Discutibile la messa in scena del regista scozzese David McVicar.

Giuseppe Verdi arrivò a Londra nei primi giorni di giugno del 1847. Il 22 luglio andarono in scena I masnadieri, la sua undicesima opera, la prima scritta per un teatro straniero, su libretto di Andrea Maffei, tratto da una tragedia di Friedrich Schiller di chiara impronta romantica, nel soggetto come nella ambientazione scura, violenta, pensata dal drammaturgo in giovane età, quando era studente presso l’accademia militare di Stoccarda. Verdi musicò il libretto che il Maffei aveva reso ancor più complesso negli snodi drammaturgici e, come attestano diversi scambi epistolari, non amò Londra, città che gli sembrò ostile, lontana. In quella città, che lui stesso definì caotica, fu costretto anche a cedere a compromessi che non gli erano soliti, come quello di assecondare le caratteristiche di alcuni cantanti che presero parte alla prima londinese, alla quale presenziò nientemeno che la Regina Vittoria. Nel cast, infatti, oltre al maturo e glorioso basso Luigi Lablache, che sostenne la parte di Massimiliano, padre dei due fratelli rivali, Carlo e Francesco, ci fu, nei panni di Amalia, amata da entrambi, il soprano Jenny Lind, regina dei salotti colti dell’epoca, che fece innamorare di sé Fryderyk Chopin e Hans Christian Andersen; un vero mito della storia del canto, belcantista assoluta, maestra nelle fioriture e nell’arte dei trilli, che a quanto pare erano la sua specialità.

Verdi, condizionato da vari fattori, ma anche dal desiderio di avvicinarsi a soggetti dove si potesse indagare più compiutamente sulla psicologia dei rapporti umani, compose dunque un’opera che riscosse successo ma che col tempo venne considerata fra le sue meno riuscite. Solo in anni recenti è rientrata nel repertorio, ed a ragion veduta, perché è un’opera laboratorio, all’interno della quale i personaggi non sono ancora sbalzati caratterialmente come lo saranno nel Verdi più maturo (in realtà I masnadieri avevano avuto in Macbeth un precedente ben più significativo), eppure appaiono già pronti ad emergere per quella forza espressiva ora tempestosa ed incisiva, attraversata da un alone di elegia romantica che fa di questa scura tragedia ispirata a Schiller un’opera piena di sorprese, carica di quella forza brutale propria ad un Verdi giovanile alla conquista delle scene londinesi, ma anche strutturata con numeri musicali assai articolati nelle forme. Rivederla sulla scena fa comprendere come il compositore fosse già abile nel far venire fuori i sentimenti umani con una rifinitezza aspra ma drammaticamente pregnante, usando i contrasti per far accendere il fuoco di un dramma a tinte fosche, che vede consumarsi la rivalità fra due fratelli, figli dell’anziano conte Massimiliano Moor: Carlo, il primogenito, legittimo erede dei beni di famiglia, figura romantica per antonomasia, che da eroe ribelle ha giurato fedeltà ai masnadieri e vive una vita d’avventura perché si crede bandito da casa dal padre; l’altro, il perfido e sleale Francesco, anima nera corrosa del desiderio di rivalsa che si tramuta in vendetta, capace di tutto pur di perseguire il suo fine, anche di divenire patricida e fratricida per ottenere ciò che non gli spetta, ma vuole. In mezzo a loro c’è la candida Amalia, destinata, come ogni donna angelicata vittima dell’alone romantico che la contraddistingue, a venir sacrificata per amore dall’amato Carlo, che a termine dell’opera la pugnala perché non vuole rinunciare a lei, ma il richiamo dell’onore per il giuramento di fedeltà che lo lega alla causa dei masnadieri lo costringe ad una scelta così insensata ed estrema.

Vite ed anime romantiche dannate, vessate dal destino avverso, come uscite da un romanzo dello Sturm und Drang, che lo spettacolo di David McVicar mette in luce pensando di ambientare l’opera al tempo di Schiller, quando il drammaturgo era studente presso la severa accademia militare di Stoccarda. Durante il preludio dell’opera, con quel meraviglioso assolo di violoncello eseguito splendidamente da Massimo Polidori, il sipario si apre e si vede la monumentale scena fissa che raffigura la sala della suddetta accademia settecentesca: una balconata sovrastata da tre finestre e un monumento con una grande statua. Ben distinti ci appaiono gli ambienti dove si muovono i militari: le docce, i tavoli dove si gioca e dove viene anche punito a frustate chi non ha seguito a dovere le rigide regole della dura vita di caserma. Uno fra questi, si immagina essere Schiller stesso. Così si viene a calare la vicenda dell’opera direttamente all’interno del mondo in cui, come si è detto, maturò il dramma dal quale è tratto il libretto dell’opera di Verdi; il regista ci mostra il giovane Schiller mentre viene preso a scudisciate, forse punito per essere stato scoperto a scrivere segretamente le pagine del suo dramma fra le pareti della caserma e si comprende come in lui si veda quello che poi sarà, nell’opera, il personaggio di Carlo, sempre affiancato dal suo giovane doppio. Questo è l’antefatto. In seguito lo spettacolo si sviluppa ancora all’interno dei locali della caserma, che poco per volta si distrugge, subisce le offese di un incendio e la razzia di squadroni di malfattori, che paiono essere gli stessi cadetti militari della scuola, in odor di ribellione dalle sue rigide regole (le schiere di masnadieri guidati dallo stesso Carlo), così che alla fine dello spettacolo l’impianto scenico non è che un ammasso di ruderi. In questo parallelismo fra fantasia del regista e sviluppo reale della vicenda, le scene di Charles Edwards e i costumi di Brigitte Reiffenstuel (le luci, accuratissime, sono di Adam Silverman), in puro stile settecentesco, sono bellissimi, ma la scelta narrativa arriva a rendere un po’ farraginoso il già non facile intreccio del libretto. Il regista viene accolto al termine dello spettacolo da qualche dissenso, non risparmiato neanche alla direzione di Michele Mariotti e al baritono interprete della parte di Francesco.

Eppure questo ritorno dei Masnadieri sul palcoscenico della Scala non può certo considerarsi un insuccesso, anzi è uno spettacolo che registicamente e musicalmente ha meriti in abbondanza. Dello spettacolo si è in parte detto, ma è sulla esecuzione musicale che vorremmo soffermarci. Michele Mariotti prosegue il suo percorso di approccio alle opere verdiane, giovanili e non, con le idee ben chiare, soprattutto tenendosi ben lontano da quelli che sono i cliché d’ordinanza di un Verdi tutto ritmi e cabalette condotte con furore garibaldino. Si concentra sui colori strumentali, sulla cantabilità delle melodie, sul respiro donato alle voci, che in più punti traggono vantaggio dal suo sostegno, dal contegno elegante che le avvolge e consegna una concertazione fuori da ogni scontata aspettativa. Il suo è un Verdi che cerca la verità drammaturgica anche dove il libretto non riesce a metterla ben a fuoco, curandosi della sostanza e non della crosta di una verdianità corrusca e greve. Tutto è in lui ricerca della tinta giusta per ogni momento dell’opera e questo depone a favore di una direzione che, proprio perché così originale nella ricerca dell’espressività musicale in funzione del dramma, forse non è stata compresa, almeno da alcuni.

Il cast vocale è di alto livello. Una conferma è certo il basso Michele Pertusi, che nei panni dell’anziano padre Massimiliano, Conte di Moor, offre un ritratto nobile e levigato della parte, che nel declamato e nella cantabilità trova accenti di una eleganza tutta incentrata sull’analitica intonazione della parola a fini espressivi. Insomma una prova maiuscola.

Lo è un po’ meno quella del baritono Massimo Cavalletti, nei panni del malvagio Francesco, che risolve con una bella voce, di bell’impasto timbrico, eppure non possiede l’approfondimento espressivo necessario, non solo per l’aria e cabaletta d’ingresso, dove per altro si percepisce anche qualche durezza d’emissione, ma soprattutto per la scena del sogno del quarto atto, dove la caratura dell’interprete è perfettibile.

Come sempre solida la prestazione vocale di Fabio Sartori, Carlo, tenore che non ha forse una voce baciata da dio, ma canta benissimo e non teme le impennate cabalettistiche infuocate che si affiancano ad una linea di canto che sa farsi a tratti anche morbida e ispirata nell’espressione vocale tormentatamente appassionata.

Un discorso a parte merita il soprano statunitense Lisette Oropesa, Amalia, attesissima al suo debutto sul palcoscenico scaligero dopo una carriera internazionale che già l’ha imposta fra i soprani più in vista del momento nel repertorio lirico-leggero. La conferma di essere dinanzi ad una cantante di rango si ha da subito, perché tecnica e dominio della scena ne fanno un elemento di punta del cast. La voce, però, che va detto è anche in grado di trovare belle espansioni liriche, sul piano del timbro è poco morbida e languida nel canto patetico e si piega con una certa freddezza al canto angelicato necessario all’aria “Lo sguardo avea degl’angeli”, dove la nostalgia struggente del sogno d’amore perduto richiederebbe più abbandono ed incanto sonori. In mezzo a tutto questo c’è l’annoso problema dei trilli, che dovrebbero incastonarsi nei cantabili e che Verdi stesso scrisse per rendere onore a quella che abbiamo ricordato essere la prima interprete leggendaria del ruolo, Jenny Lind. La Oropesa, che in altre occasioni era parso conoscesse assai bene l’arte di trillare, in questa occasione li sfoggia con una certa timidezza. Ovviamente si aggiunga che Verdi, stendendo la scrittura vocale di Amalia, agì in parte di testa sua e la confezionò tenendo in considerazione da un lato le esigenze belcantistiche della Lind, dall’altro potenziando la densità necessaria alle arcate melodiche e all’elettrizzante involo delle cabalette (vedasi il largo e avvolgente melodismo dell’aria “Tu del mio Carlo in seno” e la successiva, ritmatissima cabaletta “Carlo vive?”, fra l’altro variata con gusto nel da capo dalla Oropesa). In sintesi il respiro della linea vocale, già verdiano nelle vibrazioni, deve coniugarsi con l’elegia e i preziosismi delle fioriture. Insomma un mix micidiale di difficoltà vocali, che la Oropesa risolve superando ogni scoglio e tutto sommato vincendo la sfida, ma apparendo nella sostanza distaccata e poco fascinosa nella magia del timbro e nell’incanto elegiaco sognante, più meccanica che poeticamente languida nell’estasi romantica intrisa di patetismo, più precisa e professionale che autenticamente virtuosa. Le acclamazioni finali del pubblico attestano tuttavia l’innegabile bontà della sua prova.

Ottime le parti di contorno, con Francesco Pittari, Arminio, Alessandro Spina, bravissimo Moser e Matteo Desole, Rolla. Alla fine, come detto, al di là degli accennati buu misti ad applausi, questi Masnadieri scaligeri possono considerarsi un gradito ritorno dopo un’assenza dalla sala del Piermarini che risaliva al 1978, quando a dirigerli, nell’allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi, fu l’allora giovane Riccardo Chailly, attuale direttore musicale del teatro milanese.

Foto di Brescia & Amisano.

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