Spagna: vittoria socialista, difficile il governo

Le elezioni spagnole premiano il Partito socialista (Psoe), attualmente alla guida del Paese con Pedro Sanchez, che balza in testa con quasi il 29 per cento dei voti e diviene il primo partito, conquistando 123 seggi. Notevole flessione invece si registra per Podemos, la sinistra radicale possibile alleata dei socialisti, che arretra di ben sette punti (dal 21 al 14 per cento) rispetto alla tornata precedente e si ritrova con 42 deputati. A destra si assiste ad un vero e proprio terremoto poiché la svolta ultra conservatrice voluta dal neo segretario del Partito popolare (Pp), Pablo Casado si rivela fallimentare. Per decenni incontrastato dominatore dell’area moderata, il Pp vede dimezzare i propri consensi (dal 33 al 16 per cento) e i propri deputati (da 137 a 66), soffrendo la concorrenza dell’estrema destra di Vox. Questa formazione, non immune da nostalgie franchiste, ottiene il 10 per cento (24 seggi) e, per la prima volta nella Spagna democratica, la destra radicale entra in Parlamento. Buona la prestazione di Ciudadanos, formazione centrista che consegue 57 seggi ma, a dispetto delle sue aspettative, non riesce a scalzare il Pp come prima forza dello schieramento di centro-destra. Sostanzialmente stabili, nei rispettivi bacini elettorali regionali, le formazioni nazionaliste basche e catalane.

In un contesto politico tanto frammentato, sarà indispensabile formare una coalizione poiché nessun partito ha ottenuto la maggioranza assoluta (176 seggi). Fulcro di qualsiasi maggioranza è il Psoe, mentre il tridente di centro-destra (Pp-Vox-Ciudadanos) risulta fuori gioco, da qualsiasi soluzione di governo.

Molteplici le ipotesi in campo. La prima è un’alleanza Psoe, Podemos, nazionalisti baschi, della Navarra e della Canarie (regioni non indipendentiste), ma senza i partiti catalani, che raggiungerebbe 175 seggi, uno in meno del necessario, richiedendo l’astensione di un altro deputato per consentire a Sanchez di venire investito una seconda volta come presidente del governo.

Soglia invece ampiamente superata (199 seggi) se alle formazioni sopra indicate si sommassero gli indipendentisti catalani. Il problema è che essi puntano ad un referendum sull’autodeterminazione: richiesta impossibile da soddisfare nell’attuale quadro costituzionale. In verità nel nazionalismo catalano si registrano alcune differenze che potrebbero agevolare Sanchez. Se infatti Junts per Catalunya, dimentica della propria estrazione liberal-moderata, risulta ferma sulla pretesa di una via unilaterale all’indipendenza; Erc, della sinistra repubblicana, si mostra più disponibile riguardo ad un’eventuale intesa con i socialisti. I suoi dirigenti, dando prova di un certo pragmatismo, sembra vogliano evitare la tentazione, tanto frequente nella sinistra più radicale, del famigerato “tanto peggio, tanto meglio” e potrebbero, forse, dare il via libera ad un governo targato Psoe almeno per il voto di investitura. Ovviamente senza alcun impegno di entrare nella maggioranza.

Vi è poi la possibilità di un monocolore di minoranza del Psoe con l’astensione di chi è pronto a far nascere un esecutivo di sinistra. In pratica, lo schema, vagamente andreottiano, con cui Sanchez ha governato, non senza difficoltà, nell’ultimo anno. Dietro le quinte compare infine l’ipotesi Psoe-Ciudadanos che è anche l’opzione preferita dal mondo economico, anche per la sua indubbia caratura europeista. Difficile però che i due partiti, logorati da una campagna elettorale con attacchi quasi personali tra i due leader, possano far parte della stessa maggioranza.

Siccome però la politica resta pur sempre l’arte del possibile, questa opzione potrebbe tornare in auge, in caso di emergenza qualora fallissero tutti i tentativi di costruire una coalizione di sinistra. Sarebbe l’ultima carta per scongiurare l’ingovernabilità e un immediato ritorno alle urne tra sei mesi. E’ già accaduto nel giugno 2016, dopo che il risultato delle elezioni del dicembre 2015 non aveva permesso alcuna possibile maggioranza. Ripetere quell’esperienza sarebbe però arrendersi ad una reiterata instabilità politica: la cosa che danneggia maggiormente qualsiasi Paese.

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