“Serse”, ossia le schermaglie amorose di un monarca disimpegnato

Al Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia una buona esecuzione musicale dell’opera di Händel, ma lo spettacolo non convince

Fra i tanti motivi che hanno portato alla rinascita di interesse nei confronti del teatro musicale di Händel, c’è la consapevolezza che la sua stessa struttura permetta – con l’alternanza fra recitativi, attraverso i quali viene portata avanti l’azione, e le arie, oasi liriche in cui il fluire del tempo si ferma per permettere ai personaggi di esprimere i propri sentimenti ed affetti – un campo d’azione all’interno del quale poter drammatizzare anche i momenti di staticità, in un gioco teatrale che i registi di maggior bravura hanno saputo sfruttare al meglio, raggiungendo traguardi utili a far comprendere al pubblico come questo genere di teatro musicale abbia oggi una valenza più che attuale.

Di pari passo, si è sviluppata la “moda” delle esecuzioni “storicamente informate”, con il ricorso a complessi strumentali che ricostruiscono filologicamente il suono antico, supportati da voci che, almeno stilisticamente, sono considerate funzionali ad una prassi esecutiva ritenuta il più possibile attinente all’originale. Questo per dire che l’approccio al repertorio händeliano viene oggi filtrato attraverso un gusto imposto dall’alta competenza di direttori considerati depositari di uno stile che condiziona anche le scelte di certe tipologie vocali. Si cerca, insomma, una conformità esecutiva che risponda a canoni ben stabiliti, in un mélange perfetto fra esecuzione musicale e dinamismo teatrale opportunamente congeniato. Se si perde per strada quest’ultimo elemento, o se non si è in grado di snodarlo al meglio, ecco che il rischio più grande dinanzi ad opere come queste – e qui ci riferiamo nello specifico al Serse di Händel andato in scena al Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia e poi, per il circuito emiliano, a Modena, Piacenza e Ravenna – sia l’inevitabile noia.

È la sensazione che ha suscitato lo spettacolo firmato da Gabriele Vacis, con scene, costumi e luci di Roberto Tarasco. Serse, opera della piena maturità del “caro Sassone”, anzi una delle ultime (è del 1738) prima che abbandonasse il teatro musicale (ormai non più di moda nella Londra che lo aveva idolatrato per far spazio al nuovo genere dell’oratorio, quello che permise ad Händel una nuova stagione di successi), già sperimenta la nuova tendenza a snellire le forme, ad abbreviare le arie come per evocare un ritorno alle formule dell’opera veneziana, così da inserire anche un personaggio comico che si incunea in un’azione dove ciò che conta è l’intreccio di un libretto imperniato su pene amorose e affanni suscitati dalla gelosia, non certo su tematiche che possano evocare le gesta del monarca persiano Serse, la cui figura perde qui ogni connotato storico per divenire sovrano innamorato, interessato a null’altro se non che alle proprie pulsioni affettive, quindi assolutamente avulso da qualsivoglia richiamo alla Ragion di Stato. Gran belle possibilità si mettono a disposizione del regista, ma per sfruttarle bisogna saper far scattare la molla del teatro, saperne sprigionare le dinamiche capaci di drammatizzare i sentimenti espressi nelle arie, che per di più, come si è detto, sono brevi ed offrirebbero al regista occasioni di far vero teatro senza bloccare mai il fluire degli intrecci amorosi. Invece lo spettacolo si limita a dividere la scena in due parti: al proscenio, c’è una sorta di backstage teatrale con specchiere e petineuses dove i personaggi sembrano prepararsi per poi entrare in scena, mentre dietro di loro, su un sipario, vengono proiettati video o in trasparenza si vedono gruppi di giovani mimi ai quali è demandato di metter “in azione” la musica. Insomma, viene ulteriormente separato ciò che invece dovrebbe essere unito, così che si è indotti a guardare quanto avviene dietro al proscenio e ci si dimentica quasi di osservare come i personaggi interagiscono fra di loro. Uno spettacolo gradevole da vedere (curato nella proiezione dei video, nella bellezza dei costumi e delle movenze coreografiche), ma senza vera anima teatrale.

Detto questo, compito di Ottavio Dantone e del suo complesso barocco, l’Accademia Bizantina, che il maestro accompagna al clavicembalo, è correggere il tiro di uno spettacolo così disarticolato. Impresa che ad un affermatissimo barocchista come lui riesce benissimo. Tutto l’ingranaggio è regolato con ritmi e precisione da orologio svizzero, con limpidezza e pulizia sonore davvero mirabili. Il cast schiera uno stuolo di specialisti nel canto barocco perfettamente in stile, almeno secondi i canoni del moderno sentire. Voci educate, di portata sonora limitata, con qualche libero arbitrio sonoro sul piano dell’emissione, che talvolta non disdegna i suoni fissi, eppure assai ben amalgamante ed espressivamente persuasive. Si scarta tuttavia la soluzione, oggi auspicabile onde evitare una certa monotonia timbrica, di utilizzare controtenori per parti che furono affidate un tempo ai cantori evirati e si scelgono pertanto, per i ruoli principali, solo voci femminili.

Il protagonista, Serse, è Arianna Vendittelli, che subito si fa ammirare nel recitativo e nel celebre largo introduttivo, “Ombra mai fu”, per la gradevolezza del timbro, il gusto e la finezza del canto, poi si mostra una buona virtuosa anche nelle evoluzioni acrobatiche di “Crude furie degl’orridi abissi”, probabilmente scritta per valorizzare al meglio le qualità del primo interprete, che fu il leggendario castrato Gaetano Majorano, detto Caffarelli, campione nel canto di grazia come nelle più minute colorature. Anche Marina De Liso, specialista nel repertorio barocco di consolidata esperienza, è un Arsamene di indubbia eleganza, come bello è il timbro scuro contraltile di Delphine Galou, Amastre, se non che il volume è davvero assai ridotto. Un po’ in ombra la Romilda di Monica Piccinini, mentre spicca la voce fresca del soprano Francesca Aspromonte, già eccellente Almirena nel Rinaldo di Händel recentemente proposto nel circuito dei teatri lombardi, che con questa prova, nei panni di Atalanta, conferma le qualità vocali e artistiche che sembrerebbero renderla un punto di riferimento futuro obbligato in questo repertorio.

Due sole sono le voci maschili, quelle dei bassi Biagio Pizzuti, godibile nella parte leggera del servo Elviro, al quale dona una caratura comica misurata, e del bravissimo Luigi De Donato, Ariodate, che gioca con perizia tecnica sui passaggi di registro sfoggiando, come di consueto, una bella timbratura grave.

Insomma, i meriti musicali e vocali salvano questo Serse da una messa in scena che non rende certo giustizia all’opera. Eppure il pubblico, che affollava il magnifico Teatro Municipale Valli nella recita di domenica 31 marzo, applaude convinto ed entusiasta. Tanto meglio.

Foto di Alfredo Anceschi

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